di Corrado Corradini / scritto il 12-06-2007
L’intervento di Ugo Morelli in un incontro organizzato dalla Cooperazione Trentina
Conflitto non fa rima con guerra, eppure oggi sembra impossibile scindere i due termini al punto che sono, quasi inavvertitamente, diventati sinonimi l’uno dell’altro. Sia nel linguaggio di ogni giorno che nella stampa e nella saggistica i due concetti vengono citati come se avessero lo stesso significato. È così che probabilmente si perde di vista il valore del conflitto come incontro delle differenze, il suo portato positivo per la convivenza e la democrazia. Si tratta in fondo di una forma di negazione dell’impegno che la gestione di un confronto comporta, attribuendo al conflitto immediatamente il significato negativo di guerra e antagonismo. Aprire un conflitto o essere in disaccordo vuol dire da subito giocare contro e creare fastidio e in tal modo si perdono le possibilità che una buona gestione del conflitto può generare.
"Eppure", ha affermato Morelli in un recente incontro organizzato dalla Cooperazione Trentina, "il conflitto inteso come incontro e scambio di idee diverse, è il sale delle società umane. Non demonizziamo quindi il conflitto, utilizziamolo".
"Nella vita di ogni giorno - ha continuato Morelli - il conflitto è inteso come contrario di cooperazione. Conflitto e cooperazione, invece, sono una condizione l’uno dell’altro, portano in sé la stessa radice etimologica. Soprattutto la valorizzazione delle differenze anziché la loro neutralizzazione è il valore che può derivare alla cooperazione dalla buona gestione del conflitto".
Esiste un altro aspetto che è forse ancora più determinante e riguarda la vitalità della democrazia cooperativa. Si sa che la cooperazione è basata su un’elevata aspettativa di democrazia conferendo ad ogni socio il diritto di incidere sul governo dell’istituzione di cui fa parte. Si sa altresì che la partecipazione non sempre è elevata e facile. Una delle ragioni di questo stato di cose è forse dovuta proprio alla carente disponibilità a riconoscere e praticare il valore del conflitto come fonte della democrazia interna e, in particolare, delle decisioni e delle scelte. Si tende soprattutto a negare il confronto, spesso per la ricerca del consenso a priori o per mantenere un ordine tradizionale che appare più garante della continuità e che spesso diviene un vincolo per l’innovazione.
Il conflitto è una proprietà costitutiva dei rapporti sociali, è un fattore con cui siamo chiamati a fare i conti. La sua negazione, quando si manifesta nelle relazioni che viviamo, comporta dei costi. Siamo abituati a prendere in considerazione due situazioni: la pace e l’antagonismo. In realtà, ha precisato Morelli, esiste una terza zona, intermedia, in cui l’esito delle relazioni è legato alla capacità di elaborare le differenze. Se vuoi la pace gestisci bene il conflitto, può essere l’assunto che sostituisce il vecchio motto: “si vis pacem para bellum”.
La gestione non violenta del conflitto porta a riconoscere nella posizione altrui almeno una buona ragione. Si tratta di una ricerca impegnativa che può partire solo dall’ammettere che una posizione è legittima per il fatto stesso di esistere e che se una posizione è sostenuta da un essere umano come noi, essa non può esserci estranea. Cercare di comprendere anche le posizioni più lontane e diverse diviene certamente difficile ma è la condizione per una gestione evolutiva dei conflitti. Ciò vale sia nell’esperienza della vita sociale, che nella vita organizzativa, che nei rapporti tra Stati e popoli, dove si scontano le conseguenze deleterie della negazione del conflitto e del non riconoscimento del valore di una differenza o di una posizione diversa o anche estrema.
Ciò che ognuno di noi può effettivamente fare è agire su se stesso e prepararsi, cioè disporsi al confronto, attento a quello che dal confronto può derivare in termini di vantaggi e di innovazione. L’aggressività è un tratto costitutivo della nostra specie, ma è il passaggio alla distruttività, di carattere non genetico ma culturale e quindi modificabile, che può essere evitato. Nella nostra storia, per lunghi periodi l’umanità non ha conosciuto le guerre. Si tratta di valorizzare le condizioni per prevenirle ritenendo che sia culturale la loro origine.
Anche le istituzioni si possono caratterizzare per un tasso contenuto di distruttività se i loro componenti imparano ad elaborare i conflitti. Ripensato positivamente, il conflitto può essere inteso anche come processo alla base di ogni forma di apprendimento. Se siamo capaci di riconoscere – ha chiarito Ugo Morelli – che l’altro è portatore di qualcosa che ci manca, possiamo crescere e diventare diversi da come siamo.
L’invidia ci porta a chiudere gli occhi sulle differenze e sui valori insiti nelle altre persone. Siamo disposti a riconoscere noi stessi e le nostre qualità, ma non siamo spesso pronti ad accettare e valorizzare gli altri. L’invidia sociale frena lo sviluppo dei beni relazionali e rappresenta un blocco all’innovazione.
I conflitti identitari sono quelli più pesanti perché hanno al centro l’altro in sé, con le sue differenze culturali, religiose, etniche. Il cambiamento è un processo che ci fa paura: siamo più orientati a conservare il presente che a modificarlo. Se la diversità è troppo perturbante, la reazione più semplice è la negazione. Una comunità aperta e cooperativa, invece, è quella in cui le differenze non sono percepite come disgrazie, ma come valori che arricchiscono tutti.
Abbiamo bisogno di passare da coscienze individuali a coscienze planetarie, ha sostenuto Morelli.
In chiave cooperativa la conclusione dell’intervento, che ha favorito un ampio dibattito: “Il conflitto dispone a riconoscere che l’io è una federazione di istanze, non è imperturbabile, è duttile. Cresciamo nelle relazioni in base al modo in cui gestiamo i conflitti”.
(Corrado Corradini)