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Neotenia portami via

di Oscar de Bertoldi / scritto il 07-06-2007

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È luogo comune dire che l’uomo, prima assoggettato dalla natura, ha trovato la maniera, attraverso gli strumenti (linguaggio compreso) di rifarsi, di liberarsi dal giogo impostogli, di ottenere insomma una sorta di rivalsa, imbrigliando l’energia a suo uso e consumo. Essendo neotenici (il concetto di neotenia si presta poi ad essere frainteso: spesso viene considerata come una malattia da curare con dosi massicce di tecnologia piuttosto che una possibilità, un’opportunità per renderci la vita veramente migliore) viviamo come una vittoria questo sovvertimento dell’ordine naturale, questa nostra rivoluzione di specie. Tutta questa vanagloria rimanda tristemente ai murales cubani che riportano la famosa frase attribuita al Che, all’anelito da cui tutto iniziò e alla farsa (poco onorevole quando non crudele) di cui sono stendardo. Questo anelito alla libertà, o meglio questa necessità di emancipazione si è risolta in un ribaltamento. Adesso siamo noi a farla da padrone, o meglio a spadroneggiare, che equivale a farla da padrone, ma con boria.
Ciò che sale alla lingua è: perché vivere la natura come un elemento ostile? Perché accanirci (o forse a questo punto sarebbe più corretto dire “umanarci”, perché noi lo facciamo lentamente, razionalmente, senza foga) se è il nostro utero, il nostro contenitore, senza il quale non c’è contenuto: è come se (si perdoni l’immagine truce) un feto tagliuzzasse la placenta dall’interno, rovinando la sua unica condizione di vita.
Il nostro comportamento è governato, forse, da quel meccanismo di difesa che si chiama, se ricordo bene, rivolgimento contro l’aggressore, quello che banalizzando volgarmente fa sì che adulti violati da bambini diventino pedofili. Un tempo era la natura a violare noi, imponendoci condizioni al limite della sopravvivenza e costringendoci a ingegnarci, e adesso adottiamo la legge del taglione e la violiamo noi, ingegnandoci fin troppo. Niente di meglio, né di più civile o etico del caro buon vecchio occhio per occhio.
Non ci rendiamo conto che si tratta solo di un gioco di specchi, perché la natura siamo anche noi, anche se ci (vana)gloriamo di essere l’animale culturale (quando non, con meno coscienza ma più pompa, la creatura culturale), a partire dalla Bibbia fino a Piero Angela. In termini psicanalitici si tratterebbe (in linea con la nostra componente televisiva) di una mera proiezione. Noi proiettiamo (o pro-gettiamo, ma come si getta una sacco in un bidone) nella natura la nostra frustrazione di essere piccoli e dipendenti: è una forma di sadismo che alla resa dei conti si rivela come l’acme del masochismo, un masochismo lento, la classica vendetta che va gustata fredda, ma in cui le vittime siamo noi stessi. Si sa, però che il sadico è (quasi) sempre un impotente, cioè non sa creare, né pensare un alternativa, e ha più bisogno del masochista di quanto si penserebbe, come il torturatore ha bisogno della sua vittima, pena la fine del gioco. E proprio questa paventata fine del gioco dovrebbe risvegliarci.
La concezione giudaico-cristiana dell’uomo messo nel mondo per governarlo ci ha preso la mano e abbiamo dimenticato (come tanti altri scelti per tale funzione in tutto il mondo) che governare è un servizio e non un privilegio. Questa concezione però è LA nostra cultura, è impossibile ragionare al di fuori, o prescindendo da essa. Al massimo si possono creare delle sacche al margine, delle sacche di riflessione, e tentare di estenderne le maglie attraverso l’informazione.
Fin qui sembra tutto facile: dobbiamo semplicemente smetterla di atteggiarci da bulletti, e comportarci di conseguenza. Fin qui il ragionamento è molto interessante e pieno di buoni propositi, un monito, un messaggio nella bottiglia, o uno stimolo per riflettere. Democristianamente si potrebbe dire che tra il dire e il fare c’è di mezzo il male, ma il male ormai è una scusa troppo inflazionata per giustificare le male-fatte, per toglierci dall’ingombrante responsabilità di rispettare noi stessi.
Montaigne sosteneva che bisogna conoscere la differenza tra ciò che da noi dipende e ciò che da noi non dipende, e agire di conseguenza sul primo lasciando perdere il secondo. A questo punto come distinguerli? Cosa si può fare, pragmaticamente, per preservare la nostra vulnerabile compagna di viaggio? È una domanda un po’ infantile, forse oziosa, ma anche la più importante, la famigerata “seconda domanda”. Anche Seneca diceva che la via degli esempi è sempre migliore di quella dei precetti. Allora è sufficiente attivarsi nel quotidiano attraverso acquisti ragionati, fare la raccolta differenziata, comprare prodotti meno imballati, preferire il biologico? Utilizzare l’automobile il meno possibile, se possibile a metano? Spegnere la tv invece di lasciarla in stand-by, o non averla proprio? È meglio essere più rispettosi della natura, trattare in maniera più umana gli animali, o cominciare a trattare davvero in maniera umana gli umani? Come si fa se la nostra piccola azione viene vanificata da coloro che agiscono su scala maggiore? Dalle mense che non fanno la differenziata e producono tir di rifiuti al giorno, dalle fabbriche che continuano a vomitare fumi tanto quanto dai governi che fanno le guerre mentre noi tentiamo di dare e di darci un poco di gioia quotidiana.
In questo senso credo che sia un’ovvietà dire che ognuno segua una sua via personale, dosando come un chimico la responsabilità con il tempo e la volontà, che ognuno declini il proprio paradigma secondo le sue possibilità ma anche le sue (neotenicamente acquisite) comodità. Questo spesso è un alibi per fare meno e coltivare il proprio orticello lontani da occhi indiscreti (e magari critici).
Non pretendo che qualcuno risponda esaurientemente alle mie domande (forse retoriche ma non per questo inani), né tantomeno che mi si indichi la retta via. Ho lanciato un sasso che vorrebbero lanciare in tanti. Ora aspetto solo di contare le mani.

(Oscar de Bertoldi)