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Tra speranza e catastrofe, dove le idee e i pensieri cessano di evolvere

di Antonio Castagna / scritto il 07-09-2007

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Lunedì 26 giugno, su “La Repubblica” è comparso un lungo reportage di Maurizio Ricci, dal titolo “Investire sull’effetto serra, il clima diventa un business”. L’articolo iniziato in prima pagina proseguiva alla diciotto e alla diciannove. La premessa era che da qui al 2050 “la domanda globale di elettricità” sarebbe aumentata del 50%. Questo dato, sommato all’effetto serra renderebbe conveniente investire in energie rinnovabili, come il vento, già oggi competitivo rispetto alle fonti alternative, e il sole, il cui sfruttamento al fine di produrre energia elettrica risulta ancora eccessivamente costoso, gli fa dire che la “gigantesca iattura” del cambiamento climatico può trasformarsi in una “straordinaria opportunità”. L’aspetto problematico di una simile posizione, da cui Ricci non assume mai una distanza critica nel corso dell’articolo, è che essa ricalca il solco ideologico della crescita. Che il consumo di energia crescerà nel corso dei prossimi quarant’anni non è visto dall’autore come un problema. L’opportunità per lui non è data dalla necessità di modificare i nostri comportamenti e quindi di renderci conto dei limiti fisici della terra che ci ospita, cosa che ci permetterebbe un salto cognitivo paragonabile all’invenzione dell’agricoltura, ma dalla possibilità che nascano nuovi business (verdi s’intende). Questo tipo di posizioni non tiene conto che buona parte del problema è dato dall’ossessione per la crescita e dall’idea che diminuire i consumi sia una maledizione e una condanna alla povertà. Inoltre poggia sull’illusione che la tecnica ci permetterà di continuare a crescere indefinitamente, con buona pace di Georgescu – Roegen che già negli anni ’30 dimostrò come la materia si degradi insieme all’energia.

Il problema secondo Georgescu – Roegen è radicale. L’economia, infatti, ha come base scientifica la fisica meccanica, che descrive le interazioni tra corpi, come si possono fare le cose. Vuoi accelerare di più? Basta che tu sia spinto da una forza più grande. La meccanica non pone limiti, solo relazioni tra causa e effetto.
La critica di Georgescu è: da due secoli l’uomo ha sviluppato la termodinamica che descrive principalmente cosa non si può fare. Non puoi trasformare energia da una forma a un’altra senza perderne, a prescindere dalla tua abilità nel farlo. Anche se fossimo in grado di realizzare una centrale con tecnologia avanzatissima e “senza attriti”, il rendimento del ciclo a gas che produce energia elettrica sarebbe inferiore al 100%.
L’entropia di un sistema chiuso aumenta, quindi ogni tua azione si ripercuote sull’universo. Questo la rende una scienza “sociale”, dato che spiega, in fondo, come le tue azioni si ripercuotono sugli altri.
Georgescu dice: come è possibile che l’economia, che è una scienza sociale, abbia come base scientifica la meccanica, che ha un orizzonte limitato, e non la termodinamica, che ha una visione molto più completa del mondo e delle ricadute sociali?
Il suo pensiero poi si allarga e dice: non solo la termodinamica ti dice che l’energia si degrada, ma l’osservazione ti dice che anche la materia lo fa (tagliando il pane fai delle briciole, che se devi farti un panino sono sprechi). Quindi si deve tendere a consumare meno energia e meno materia, anche perchè, quando possibile, ripristinare la materia costa energia.

Giovedì 30 agosto, sempre “La Repubblica”, stavolta a firma Enrico Franceschini, a pagina 20, riferisce di un articolo del Guardian intitolato “La fine del cibo”. Pare che il business verde rappresentato dai biocarburanti vada talmente bene che i contadini preferiscono coltivare mais per produrre bioetanolo piuttosto che grano, il che ha comportato in un anno il raddoppio del prezzo del grano (da cui deriva l’aumento del prezzo del pane di questo periodo ad esempio). Secondo Lester Brown del Worldwatch Institute, riferisce sempre Franceschini, “siamo di fronte a un’epica competizione per le granaglie tra gli 800 milioni di automobilisti del pianeta e i due miliardi di poveri della terra”.
Sembra lo scenario raccontato da Jared Diamond in “Collasso” (Einaudi) nel capitolo dedicato all’isola di Pasqua, nella quale gli abitanti sacrificarono fino all’ultima palma per innalzare la statua più grande alla divinità e mostrare così la propria potenza. Solo che questa volta la divinità è l’automobile.
Il motivo per cui accosto i due articoli è che lo stesso giornale da una parte inneggia a ipotesi risolutive dei problemi, dall’altra mostra come le possibili soluzioni contengano al loro interno altri problemi.
Occorrerebbe forse provare a costruire un atteggiamento più coerente nei confronti dei problemi ambientali. Accettare che non sono possibili soluzioni, ma solo scelte che tengano conto della necessità e anche dell’opportunità del limite, se non si vuole andare dietro, in maniera schizofrenica, a ipotesi risolutive un giorno e catastrofiche il giorno dopo. La minaccia della catastrofe, così spesso usata dagli ambientalisti per sostenere le proprie posizioni, si rivela, al di là delle intenzioni, un’alleata del paradigma della crescita. Alla catastrofe infatti occorre porre rimedio, e questo grazie alla tecnica (soluzioni ad hoc, le chiamava Gregory Bateson in “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi). Non è escluso, ad esempio, che alla penuria di cibo si risponda coltivando terre marginali, magari con organismi geneticamente modificati, che producono di più ma consumano acqua e sono pure pericolosi, in questo modo da una nuova ipotesi risolutiva arriveremo a una nuova catastrofe e così via. Il paradigma della crescita, si alimenta della speranza nella tecnica. Ma questo è ancora una volta il paradigma meccanicista, che si occupa di cause ed effetti, di come si fa una cosa, dicevamo prima. Se proviamo a pensare con le regole della termodinamica, non possiamo non vedere come ogni azione si ripercuota sulle altre e come ogni panino produca molliche. Per dire quanto sono importanti le molliche, basti pensare che il 60/70% di polveri sottili dovute al traffico automobilistico, sono dovute alle particelle di freni, gomme, frizioni, rilasciate dalle automobili ogni volta che si muovono (Guido Viale, “Vita e morte dell’automobile”, Bollati Boringhieri). Le particelle rilasciate sono l’equivalente delle molliche di pane.
Continuare a parlare di crescita significa sostare in una sorta di pendolo tra le speranze periodicamente suscitate dalla tecnica e le paure suscitate dai suoi stessi limiti. Questo ci impedisce di trasformare veramente il limite in una opportunità gigantesca, quella di fare i conti con la propria finitudine, rinunciando a quella ybris che da Atene in poi, come scrive Luigi Zoja in “Storia dell’arroganza” (Moretti e Vitali) caratterizza la storia dell’occidente prima e dell’umanità intera oggi.
Speranza e paure finiscono per impedire un sano conflitto il cui obiettivo dovrebbe essere quello di ristrutturare il problema, ridefinendo la nostra posizione verso il mondo. Prima che un problema pratico è un problema di punto di vista che assumiamo, per questo il ruolo dei mezzi di informazione si rivela così importante.

(Antonio Castagna)