Bruno Mondadori, Milano 2009.
Recensione di Luca Mori.
«A questo serve oggi, dunque, elogiare l’Illuminismo: perché accanto alla volontà di sapere, alla forza simbolica di una rappresentazione “teatrale”, capace di porre a distanza le cose, guardandone in profondità il nucleo sia cognitivo sia espressivo, venga messa in campo la forza di un’ironia che fa comprendere il significato razionale, biologico e metafisico dell’immaginazione e del pensiero, di tutti quegli ambiti che permettono di percepire il cambiamento, di avere esperienza della vita: un’esperienza sensibile, concreta, estetica, capace di seguire il variare e il mutare del mondo della vita», ivi, p. 137
Che cos’è l’Illuminismo? È ancora attuale – e non riguarda soltanto i filosofi – la domanda che Kant sentì il bisogno di sollevare già nel 1784, l’anno in cui morì Diderot, un anno dopo la morte di D’Alembert e sei anni dopo quelle di Rousseau e Voltaire.
La domanda è ancora attuale perché con il termine Illuminismo si può designare molto più di un’epoca storica o di un movimento di pensiero: si tratta, anzitutto, di un atteggiamento e di una postura conflittuali, polemici con l’esistente, con gli abiti mentali, morali e pratici diffusi.
Per Kant è una riflessione sull’autonomia e sulla possibilità di uscire, attraverso il sapere e la ricerca, da condizioni di minorità che l’uomo deve imputare a se stesso, alla propria pigrizia, alla propria rassegnazione, al desiderio da suddito di essere rassicurato. Tutto ciò è possibile, però, non soltanto attraverso il sapere e la ricerca. Franzini richiama l’attenzione, nel suo libro, sul “non so che”, sul wit, sull’acutezza e l’ironia, sul sorriso, che è «lo sguardo simbolico della ragione, che sa costruire connessioni e rinvii senza perdere il valore della ricerca» (p. 135):
«Il non so che è la prima manifestazione non di una differenza abissale tra “ragione” e “sensibilità”, ma della loro diversa posizione “modale”: il sentimento è una modalità di afferrare non la natura dell’oggetto, bensì la sua relazione con l’emotività soggettiva e intersoggettiva» (p. 132);
«Non so che, wit, acutezza, ironia, witz sono modi per descrivere le capacità dell’ingegno di aderire “al mondo della vita” quale origine di una conoscenza che viaggia, irriducibile a forme e schemi anche quando in essi si traduce. Questi elementi, nel Settecento, non hanno né quella traduzione poetica e catartica ipotizzata da Aristotele né, se non in modo occasionale, e ad altro finalizzato, come in Hogarth e in Stern, un intento di ridicolizzazione […]» (p. 135).
***
Veniamo al nostro tempo. Nel mese di agosto 2009, dopo la pubblicazione della sentenza del Tar del Lazio che escludeva i professori di religione dagli scrutini, sostenendo l’incompatibilità del principio inviolabile della libertà di coscienza su questioni religiose con l’attribuzione di posizione “dominante” ad una sola religione, il presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, Diego Coletti, ha reagito parlando di una sentenza ispirata al più «bieco illuminismo», tale da danneggiare addirittura «la laicità dello Stato».
In un articolo del 19 ottobre 2009 sul Corriere [L’idea (disastrosa) dell’ora di Islam e il rischio della scuola coranica], Vittorio Messori scrive che, in sostanza, Rousseau fu maestro di giacobini e girondini, credendo che «si nasce buoni, il peccato originale è una favola disastrosa, date ai fanciulli dei maestri acconci ed avrete il regno della bontà, dell’altruismo, del civismo». Ebbene, si capisce che nel breve spazio di un articolo giornalistico non ci sia lo spazio per dar conto in modo accurato del pensiero di un filosofo e che, perciò, si sia in qualche modo costretti ad esprimersi per sommi capi; tuttavia, rivolgendosi ad un pubblico più numeroso e meno esperto di quello dei lettori di saggistica, si ha una maggiore responsabilità. Quella tratteggiata in due righe da Messori è una caricatura di Rousseau e, tra le righe, di un “certo” illuminismo: il filosofo del Contratto sociale era ben più tormentato; pensava il tema della caduta dell’uomo non in termini teologici, ma anzitutto storici e sociali; e soprattutto riteneva che il problema di fissare nel cuore degli uomini l’amore per le leggi e per il “generale” fosse analogo al problema della quadratura del cerchio.
Sorvolando su questi aspetti, l’articolo di Messori prosegue con domande retoriche argute, mettendo in guardia dall’idea di un’ora di religione islamica nelle scuole, perché per i musulmani è «impensabile il concetto stesso di “storia delle religioni”». Messori chiede infatti al lettore come possa pensare il concetto di storia delle religioni «chi è convinto che c’è una sola fede e le altre sono o incomplete o menzognere». Quest’ultima osservazione, tuttavia, si applica altrettanto bene, in linea di principio, ai cattolici. «Non sanno che è impensabile il concetto stesso di “storia delle religioni” per chi è convinto che c’è una sola fede e le altre sono o incomplete o menzognere?»: Messori riferisce quel “chi è convinto” ai musulmani, ma quale religione potrebbe sottrarsi all’assunto della sua domanda retorica? Si sarebbe potuto invece aggiungere che l’idea di una storia delle religioni, non religiosamente orientata nell’attribuire meriti e priorità, deve molto ad un pensatore come Hume e all’Illuminismo.
I due casi citati illustrano come l’Illuminismo sia ancora al centro di discussioni cruciali non solo per la filosofia, ma anche per la politica e per la concezione del nostro vivere sociale.
***
In ben altro contesto, anche George Lakoff si riferisce in modo ambiguo all’Illuminismo. Da un lato, il celebre professore di Linguistica e Scienze Cognitive di Berkeley scrive di una «vecchia idea di ragione, risalente all’Illuminismo, secondo la quale la ragione è conscia, letterale, logica, universale, sottratta alle emozioni, incorporea e funzionale agli interessi di chi la esercita» (G. Lakoff, Pensiero politico e scienza della mente, trad. it., Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 2); dall’altro lato, pur avendo così squalificato il modo illuministico di riferirsi alla ragione, si appella ancora al termine per indicare l’esigenza di un Nuovo Illuminismo (cfr. cap. 18 e p. 271): «La distorsione illuministica consiste nel credere che noi siamo razionali, che queste distorsioni cognitive non esistono in noi – chiunque dica noi – e che noi, come esseri razionali consapevoli, abbiamo accesso diretto ai nostri processi di pensiero e conosciamo le nostre menti. Il Nuovo Illuminismo deve trascendere la distorsione illuministica».
Franzini ci richiama a pensare l’Illuminismo senza farne «un feticcio da esaltare o condannare», né un “movimento” da storicizzare, riducendolo così a «qualcosa di morto»: occorre invece leggerlo come «il primo momento dell’autocoscienza del pensiero europeo, che affronta la propria tradizione e la molteplicità delle proprie storie» (p. 1).
Contro una vulgata in cui sostanzialmente ricade anche il citato Lakoff, inoltre, Franzini ricorda e dimostra che l’Illuminismo «non solo ha vissuto l’oscuro e il senso del limite della ragione, ma ha anche originato una forte tensione metafisica che ancora rivela tutta la sua perturbante attualità, criterio per leggere senza veli le contraddizioni del presente» (p. 3). Se si segue tale indicazione, anche la «polemica anti-illuministica di Horkheimer e Adorno», con la domanda implicita sulla ragione dell’Illuminismo e sulla sua capacità di «dire ancora qualcosa dopo Auschwitz», va affrontata riconsiderandone gli assunti: l’Illuminismo non celebra l’esistenza di una ragione trasparente e pienamente in possesso di se stessa, ma solleva radicali domande sull’autonomia dell’uomo in relazione ai limiti della sua ragione. La tragedia di Auschwitz, allora, può essere messa in relazione non tanto con le vicende di una (presunta) ragione illuministica, tecnica e piena di sé, ma proprio dall’oblio dei principi dell’Illuminismo, con il suo monito sui limiti della ragione e con gli appassionati appelli all’uscita di tutti dalle minorità: «la tragedia deriva dall’oblio dei suoi principi, dalle sue posteriori mitizzazioni e non dalla sua forza contraddittoria, che tiene in vita la dialogicità e la criticità del pensiero» (p. 2).
Dopo essersi confrontato con gli aspetti suggestivi e con le distorsioni della lettura hegeliana dell’Illuminismo, Franzini cita lo Spirito delle leggi di Montesquieu, pubblicato nel 1748, come
«un testo che permette di far dialogare le metafisiche dell’epoca, di mettere a confronto le storie che raccontano e i risultati cui giungono […]. Qui si coglie lo spirito dei Lumi come necessità di porre in gioco, e in dialogo, alcuni temi comuni: il piacere, il godimento dei beni materiali, la sociabilità e l’estensione del diritto naturale, la razionalità che deve essere propria delle forme di governo, il principio dell’uguaglianza naturale tra gli uomini […]» (pp. 24-25).
In Montesquieu e in altri protagonisti dell’Illuminismo troviamo inoltre indicazioni e motivi per uscire dalle mitologie dell’io isolato e della ragione autosufficiente, prendendo consapevolezza che
«l’io stesso deve esaltare la sua dimensione pubblica e teatrale esibendo la propria vita, che è insieme vita sociale e vita estetico-sensibile, combattendo contro i pregiudizi, lottando contro legacci e marionette, contro automatismi pubblici e privati, etici e conoscitivi» (p. 136).
Questa è la sfida ancora attuale dell’Illuminismo. Da assumere con il senso dell’arguzia e del gusto, anzitutto quello dell’autonomia, in una società e in una cultura
«dove sembra di vivere solo tra situazioni perturbanti, che sono tutte quelle occasioni in cui gli uomini si “reificano”, trasformandosi in fantocci, in marionette, in macchine, in automi, in criceti su una ruota, in cui l’altro appare come uno strumento, in cui la vita si immobilizza in un’inquietante ambiguità» (p. 137).
Ciò vale per il nostro tempo come per quello in cui gli Illuministi seppero suscitare conflitti, cercando
«un orizzonte in cui la vita può trionfare, in cui la società, e i soggetti in essa, vadano in una direzione “vitale”, in cui la percezione sia viaggio e cambiamento. Il wit, lo spirito associativo che vive nell’Illuminismo, annulla la ripetizione, l’uomo trasformato in marionetta, ogni occasione in cui il sentimento è “compresso”» (p. 137).
È qualcosa di cui abbiamo ancora bisogno e per questo c’è molto da apprendere da un elogio dell’Illuminismo.
L’autore – Elio Franzini insegna Estetica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di Milano, dove è Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Tra le sue pubblicazioni: Estetica. I nomi, i concetti, le correnti (con M. Mazzocut-Mis), Milano 1996; Filosofia dei sentimenti, Milano 1997; Fenomenologia dell’invisibile. Al di là dell’immagine, Milano 2001; L’estetica del Settecento, Bologna 2002; Breve storia dell’estetica, Milano 2003; I simboli e l’invisibile, Milano 2008.
Stampa il documento