Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 164.
Recensione di Antonio Castagna.
L'intervista a Fofi, già nel titolo, ribalta alcune convinzioni che negli ultimi decenni sono diventate luogo comune. Quella ad esempio che l'aspirazione di ogni minoranza debba essere quella di farsi maggioranza. Leggendo invece si fa in fretta a convincersi che l'obiettivo di ogni minoranza debba essere quello di evolvere continuamente in una nuova minoranza, perché qualunque sia la scelta della maggioranza finirà per definire il campo del conformismo e dell'acquiescenza, la zona grigia, come la definisce Fofi. Compito della minoranza sembra invece quello di alimentare l'utopia, quello che non c'è. Dice Fofi, quel che a me interessa di più sono quelle “minoranze che chiamerei etiche: le persone che scelgono di essere minoranza, che decidono di esserlo per rispondere a un'urgenza morale” (p. 21). In queste parole traspare un'idea di democrazia come modalità per rimettere continuamente in gioco saperi e poteri acquisiti, allargare il campo delle possibilità.
L'utopia dunque non come orizzonte impossibile, ma come continua ricerca che risponde a un “moto irrazionale”. La realtà dell'uomo infatti, secondo Fofi, è mescolanza di bello e di brutto. L'uomo si è evoluto esercitando violenza sulla natura e sulle altre creature, che ha contribuito a generare una razionalità calcolatrice e opportunista. Ma la sfida delle minoranze non parte da un calcolo opportunista, quanto da un'urgenza etica che parte da un rifiuto, il “non accetto” di Aldo Capitini che Fofi cita spesso.
Non accettare, non collaborare, farsi consapevolmente élite, sono queste le linee guida dell'azione. Il rifiuto è un punto di partenza per costruire nuove possibilità da vivere nel presente: “L'obiettivo delle minoranze deve essere anche quello di costruire e vivere nuovi rapporti tra le persone, e tra le persone e le altre creature, tra le persone e la natura, rapporti liberi e vivi, ancorché dialettici, già ora, subito, in questo momento, senza rinviare niente a dopo la presa del <<potere>>” (p. 43). Per queste ragioni Fofi è molto critico con la tradizione socialista, che considerava l'utopia come il compimento di una rivoluzione che avrebbe cambiato i rapporti sociali. Ed è critico con la tradizione cattolica che addirittura rimanda la soddisfazione all'aldilà.
Costruire nuove relazioni e nuove possibilità significa innanzitutto mettere in gioco le proprie certezze, “complicità e menzogne” (p. 37) facendosi guidare dal sentimento della vergogna che rende insopportabile vivere in mezzo a tante disuguaglianze e ingiustizie e che porta a compiere una scelta individuale. La vergogna è per Fofi profondamente diversa dall'indignazione, quel sentimento “facile” che ti fa trovare un nemico contro cui lottare.
Il testo presenta diversi piani di lettura, da una parte l'esplicitazione della tesi iniziale, dall'altra il racconto di come dal dopoguerra ad oggi sia cambiata l'azione delle minoranze. Di come siano state sostanzialmente cooptate dal potere politico che è diventato nel frattempo sempre meno permeabile alle istanze della società. Fofi nel racconto attraversa diversi decenni continuando il dialogo con i numerosi interlocutori che ha incontrato sulla sua strada. Potrebbe sembrare in certi momenti che il racconto sia attraversato da una sorta di nostalgia senile, per cui ciò che è stato è sempre meglio del presente. Invece Fofi parla da dentro un mondo, dal punto di vista di un intellettuale che mai ha voluto sentirsi parte di una maggioranza e che nel contempo ha dato vita a innumerevoli occasioni di confronto e di apertura, come sono state le riviste a cui ha partecipato, o che ha fondato, come “Ombre rosse”, “Linea d'Ombra”, “La terra vista dalla luna” e attualmente “Lo Straniero”. Riconosce che negli anni '50 e '60 del '900 le élite di questo paese avevano la capacità di connettersi e mettersi in relazione con quanto avveniva nella società e la società stessa aveva una capacità di azione collettiva ora impossibile da ritrovare. Il capitalismo ha diffuso l'idea che siamo individui in concorrenza l'uno con l'altro, dentro un sistema di infinite possibilità. Il mercato ha finito per isolarci e addormentarci. Il salto da fare adesso è politico, nel senso della polis che comprende tutto ciò che sta alla base del vivere comune.
L'ultima volta in cui è sembrato che una dimensione collettiva ridiventasse possibile, l'epoca della fioritura del volontariato, negli anni '90, è andata a finire con una gigantesca cooptazione in un sistema di welfare deficitario che ha trasformato molte organizzazioni in “sottobosco della politica” (p. 120).
Fofi si sofferma sull'incapacità, collettiva, di scorgere i segni e gli indizi di una deriva. Eppure non sembra così difficile riconoscere quando una minoranza cessa di essere elemento di disturbo e diventa elemento di potere: “Basta guardare alla perdita di peso del compito che ci si era dati all'inizio e al prevalere della preoccupazione per la propria sopravvivenza e autoaffermazione” (p. 40).
Fofi ha passato tanti anni a girovagare per diverse città, da nord a sud, è passato attraverso diverse esperienze, dal volontariato in Sicilia con Danilo Dolci, al lavoro alla Olivetti, dalla mensa popolare a Napoli alle redazione di riviste, alla collaborazione con diverse case editrici; ha creato attorno a sé gruppi di lavoro di giovani, favorito l'incontro di personalità diverse e promosso autori altrimenti trascurati. È stato soprattutto un educatore, uno, come dice lui stesso nell'intervista, che “deve pensare ad aiutare le persone a diventare molto più brave di lui” (p. 41). L'intervista restituisce la ricchezza delle esperienze e nello stesso tempo serve a ribadire le urgenze a cui dovrebbe rispondere chi decide, consapevolmente, di farsi minoranza, misurando l'azione dagli esiti, senza la pretesa di troppi intellettuali “narcisi” di parlare per tutti. Ognuno nell'azione sociale dovrebbe continuamente chiedersi cosa è riuscito a seminare e disseminare, in che senso la propria azione ha contribuito a generare cambiamento. Fofi dimostra di averlo fatto continuamente e di continuare a farlo con grande coerenza. L'intreccio di piani diversi del racconto, l'alternanza di episodi, aneddoti, riflessioni; il dialogo con le persone incontrate in tutti questi anni, molti dei quali oggi scomparsi, restituiscono il senso di un'implicazione profonda, intreccio inestricabile di azione e riflessione, molto diverso dalla distanza dell'intellettuale che osserva la realtà per restituirne un'immagine compiuta e in fin dei conti rassicurante, perché nella sua riflessione si è assunto anche il compito di risolverne le contraddizioni.
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