base

home/documenti/recensioni

Roberto Scarpa, L’uomo che andava a teatro. Storia fantastica di uno spettatore

Moretti & Vitali, Bergamo 2009.
Recensione di Luca Mori.

«Qualche tempo fa – scrive nelle pagine iniziali Roberto Scarpa – mi scoprii in imbarazzo anche davanti alle domande di mio figlio: che cosa facevo tutti i giorni e spesso anche la notte? Tutti gli altri padri facevano cose che si spiegano facilmente, perché il suo andava tutti i giorni in teatro? Mi sarebbe tanto piaciuto avere la capacità di rispondere ma non avevo le parole giuste per giustificarmi: perché il teatro? a che serve?» (p. 18). Il modo con cui è formulata la domanda ne segnala l’ambiguità e la complessità.
Manca una risposta pronta e proprio questo testimonia che l’autore ne sta cercando una diversa da quella più a portata di mano, quella che potrebbe dare un funzionario: se c’è chi ama gli spettacoli, ci vuole chi se ne occupi, proprio come ci vogliono scrittori e editori di romanzi, dal momento che c’è chi li legge, o autori di programmi televisivi, dal momento che c’è chi si intrattiene guardandoli. La risposta del funzionario sarebbe quella di chi guarda all’audience; quella di Roberto Scarpa è quella di chi cerca il senso. L’imbarazzo dell’autore segnala la sensibilità rispetto alla domanda, e il libro – tra l’altro – è attraversato dallo sforzo paradossale dell’amante che prova a raccontare perché, come e di chi gli è capitato di innamorarsi: impegno tanto più paradossale dal momento che, in questo caso, l’amore non può essere geloso, ma va comunicato perché ha bisogno di testimoni, di complici e di compagni di viaggio, di altri disposti a innamorarsi; poi, come per l’innamoramento, non tutto si può raccontare, perché nonostante Memoria un resoconto autobiografico non potrà contenere tutte le sfumature e i toni emotivi di una storia.
La domanda “a che cosa serve” si accompagna e si chiarifica vicendevolmente con quella sul perché: perché gli uomini fanno teatro? Già Aristotele aveva notato, nella sua Poetica, che gli uomini sono, tra gli animali, quelli più portati a imitare. Ma questo è un primo aspetto: c’è anche il fatto che, inevitabilmente, siamo attori e spettatori di storie e, come scrive Jerzy Grotowski nel suo tentativo di definizione, teatro è «ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore». Lo stile stesso dell’esposizione di Scarpa – il fluire dialogico del confronto tra l’autore e il suo doppio, Memoria e immaginazione – allude al nostro “io affollato”: il rimando della coscienza individuale a quella altrui e al proprio passato, assieme all’immaginazione, si svolge attraverso proiezioni, identificazioni, sostituzioni, “prendere parte”, fare “come se”. C’è ancora, radicata nel connubio mente-corpo, la disposizione a immedesimarsi, che l’autore indaga introducendo una significativa variazione terminologica, “intedesimarsi”, che diventa la chiave d’accesso a una fenomenologia più ricca della mente relazionale.
Si potrebbe arrivare a dire che il teatro è questione di sopravvivenza, se effettivamente – essendo mutevoli e non disponendo di un “senso” già dato – dobbiamo continuamente rinarrarci e costruire trame, per dare un senso articolato e profondo alle nostre relazioni intrapsichiche e sociali. Roberto Scarpa suggerisce anche l’idea che il teatro sia stato una specie di antidoto: «Il teatro invece è assemblea di corpi e voci, piazza brulicante di vite e commerci, agorà. Gli unici schermi che ci trovi, in teatro e in piazza, sono quelli dei corpi. Ma sono proprio loro, anche se a volte ti fanno dannare, che ti permettono di vivere e di interpretare, come attore o come spettatore, Amleto o Epido, Don Giovanni o Lady Macbeth» (p. 120). E ancora: «Una seconda risposta alla domanda a cosa serve il teatro - la prima è che oggi non serve più, o non serve ancora, assolutamente a niente – potrebbe proprio essere questa: il teatro è stato inventato, quando ancora serviva a qualcosa, come cura per la paura della vita collettiva, terapia dell’agorafobia. Un potente antidoto nei confronti di quel veleno che è il terrore del conflitto, del corpo, dello spazio aperto: un panico che provi non appena arrivi nella piazza della città» (pp. 121-122).
La «paura dell’agorà», la piazza che trasformava in cittadini (p. 122) di cui scrive Scarpa, significa anche paura dei conflitti. E se oggi il teatro «è stato relegato ad attività marginale» (p. 122), la circostanza ci segnala – come un indicatore sensibile – che la nostra epoca ha parimenti relegato ai margini la questione dell’accesso al conflitto. Infatti, tale accesso è proprio ciò che la spettacolarizzazione massiva impedisce o scimmiotta: «Adesso che è stato relegato ad attività marginale, infantile, perfino culturale, il teatro si è dovuto rassegnare a sloggiare dal centro della città e assieme a lui se n’è andata dal tuo orizzonte anche la piazza. Le città non sentono più il bisogno di avere né l’uno né l’altra. Il teatro, se proprio vuole, può andare, con la coda fra le gambe e tutte le sue ormai innocue carabattole, a cercare di sopravvivere, irrilevante, in periferia […]» (p. 122); e ancora: «[c]ome logica conseguenza di tutto questo, diminuisce progressivamente il numero di coloro che escono di casa per andarci, mentre aumenta il numero di coloro che desiderano farlo e che lo invitano nei loro luoghi di vita e lavoro» (p. 123). Da qui il diffondersi del teatro nella scuola, nelle carceri, nelle comunità, nelle imprese, tra i manager e gli adolescenti, tra gli anziani e i disabili (p. 123). Perché, tra l’altro, «[i]l teatro può farti cambiare idea. Anzi questa è la cosa che sa fare meglio. Ecco la possibile terza risposta: il teatro serviva a farti cambiare idea; rendeva possibile questo miracolo dell’animo umano che è il cambiamento in conseguenza di un apprendimento» (p. 123).
Siamo lontani dai tempi di Eschilo, dai Persiani a cui Roberto Scarpa riserva il primo posto accompagnando la sua “storia di spettatore” con la rilettura di alcune celebri opere del teatro mondiale. Siamo lontani ma c’è, anche, un’aria di famiglia con quello che il teatro ancora può (potrebbe) dare, in quella prima opera giunta integralmente scritta fino a noi, così emblematica per la questione dell’accesso al conflitto. La scena ambientata a Susa, davanti alla reggia: si aspettano notizie di Serse e della spedizione in Grecia, ma c’è nell’aria il presagio della disfatta. Alla notizia della sconfitta subita a Salamina, il Coro ricorda i trascorsi gloriosi dell’Impero e si lamenta per la boria del giovane re, che ha provocato tanta sofferenza ai Persiani, e la perdita di tante giovani vite.
Ai Persiani resta soltanto il dolore, ai nemici l’esultanza, come il Coro lascia intendere. Ma non è esattamente così: a coloro che qui appaiono nemici, agli Ateniesi di Eschilo, restano l’esultanza e la tragedia, il senso del tragico che il teatro rende accessibile.
Non mancano, nel libro di Scarpa, molti altri spunti per rileggere alcuni classici del teatro. Molto suggestiva e argomentata, ad esempio, l’interpretazione di Edipo: un Edipo senza complessi, un Edipo da adottare come padre perché, colpevole di non aver saputo guardare e consigliare se stesso, incapace di rispondere davvero all’enigma della Sfinge, finalmente «capisce che solo la propria scomparsa può salvare la città e i figli liberando le energie che la sua presenza impedisce si sprigionino. Scopre la vecchiaia (la stessa di Urano, di Crono, di Laio) come la condizione in cui si deve apprendere l’arte del togliersi di mezzo per far passare il futuro. Dal momento che non ha figli, ma fratellastri e sorellastre, decide di adottarli per dare un senso alla sua vita, aiutandoli» (p. 202).
Da questa e da altre storie riproposte da Scarpa ricaviamo che il teatro non ha a che fare soltanto con l’accesso al conflitto, ma anche con l’esercizio rispetto al nostro essere naturalmente teatrali e con il senso di possibilità. Per quanto riguarda il primo punto, il fatto che normalmente “ci sdoppiamo”, che facciamo proiezioni, che ci relazioniamo a rappresentazioni, è una facoltà carica di ambiguità: costituisce la premessa della nostra possibile autonomia, ma che al tempo stesso ci rende plasmabili e pronti alla dipendenza e all'asservimento; l’essere duplici è la scaturigine ambigua della capacità che ciascuno ha di capire l’altro, di “intedesimarsi”, ma al tempo stesso può far vivere nel più totale distacco il rapporto con l’altro. Insomma, l’opzione tra spettacolo, “messa in scena” e ciò che Roberto Scarpa preferisce definire “mettere in assemblea” non è una circostanza accidentale della nostra epoca, ma il contrassegno dei molti modi con cui gli uomini, come animali scenici e teatrali, apprendono a relazionarsi (o a non relazionarsi) alla propria “doppiezza” e alla propria ambiguità. Il teatro dunque – inteso come “mettere in assemblea” – può essere tra le molte altre cose una cornice per l’esercizio al “contenimento” dei risvolti più inquietanti e terribili dell’umano “potersi sdoppiare”, una cornice per l’esercizio alla relazione e al conflitto. Di nuovo, come scrive l’autore, al «cambiare idea»: cosa che l’uomo può fare, ma a cui è disabituato, perché la si disapprende in molti luoghi. Come si disapprende il “senso della possibilità” (e la marginalità del teatro ne è la conseguenza e una condizione aggravante): qui il riferimento è a Robert Musil, che ne L’uomo senza qualità affianca al «senso della realtà» un «qualcosa che chiameremo senso della possibilità». Chi non possiede o non esercita quest’ultimo, non potrà dire o pensare la diversità da sé e dall’esistente, mentre il senso della possibilità rende capaci di «non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è» (L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972, pp. 12-13). La storia fantastica di uno spettatore, a questo punto, diventa la storia di chiunque, dialogando con la memoria e l’immaginazione, voglia esercitare il senso della possibilità accedendo ai conflitti (e alle frustrazioni) che ciò inevitabilmente comporta. Quella dello spettatore così inteso è una scelta estetica e comporta lo sforzo di riorganizzare la propria percezione del mondo e degli altri andando al di là di ciò che esiste, pensando l’inedito. È una prerogativa dell’«animale più imitativo di tutti» poterlo fare, ma perché dovrebbe? Citando ancora Musil, forse perché «il mondo contiene altrettanta voluttà quanto estraneità», e «il solo sbaglio che potremmo commettere sarebbe d’aver disimparato la voluttà dell’estraneità» (ammesso che parte del nostro desiderio di relazione e di accesso al conflitto – di accesso al teatro – non sia «di fare di due creature una sola, bensì… di diventare due in una congiunzione, ma meglio ancora dodici, un numero infinito, di sfuggire a noi stessi come in sogno, di bere la vita a cento gradi di fermentazione, di essere rapiti a noi stessi o comunque si debba dire»).

Stampa il documento

Segnala questo testo ad un amico