ETS, Pisa 2008.
Recensione di Luca Mori.
Durante gli anni trascorsi al Parlamento Europeo Luciana Castellina è stata tra l’altro presidente della Commissione cultura e media; dal 1998 al 2003 è stata presidente dell’Agenzia per la promozione del cinema italiano all’estero (Italia-Cinema) e il suo interesse per il rapporto tra cinema e cultura – che in questo libro è evidente fin dal titolo, con l’allusione a Hollywood – trova ora espressione nell’impegno della presidenza onoraria di www.cinemaeuropa.org, portale e quotidiano online quadrilingue sulle produzioni del cinema europeo.
Il libro si apre con la domanda «Esiste una cultura europea?» e, come scrive Maurizio Iacono nella Prefazione, l’autrice ci aiuta a chiarire in quali direzioni dovremmo cercare risposte «con ciò che rischia oggi di andare perduto: l’informazione» (p. 8). Il saggio, in effetti, è ricco di informazioni, di racconti, di episodi più o meno noti e di “retroscena”, il tutto intrecciato con una narrazione scorrevole, a tratti incalzante, che alterna le inquadrature panoramiche e la messa a fuoco dei dettagli.
Al lettore non viene imposto un unico punto di vista prospettico rispetto al quale organizzare e interpretare le numerose vicende menzionate dall’autrice e la sua ricostruzione dello spazio riservato alla cultura nella costruzione dell’Europa: tuttavia è possibile individuare due tesi principali, asserite con chiarezza fin dalle pagine iniziali e poi mantenute come “sfondo” problematico del libro, che costituiscono per così dire i fulcri attorno ai quali vengono sollevati interrogativi e rilievi critici. In primo luogo, c’è l’idea che una «cultura comune» sia la precondizione «per la definizione di un demos», il quale a sua volta è conditio sine qua non di una «comune opinione pubblica, decisiva per conferire maggiori poteri agli organismi comunitari senza incorrere nel rischio che essi non rispondano a nessuno, perché il soggetto di riferimento è sbriciolato, segnato da input diversissimi» (p. 9). Seguendo alcuni spunti ricavabili da Max Weber, si potrebbe proseguire e dire che in assenza di “condotte di vita” e di “aspettative” culturali condivise, non c’è quel genere di legittimazione che deriva dal riconoscimento reciproco e, nel caso particolare dell’Europa, il mancato riconoscersi di un demos mediante l’effettiva “messa in comune” delle culture indebolisce le istituzioni comunitarie nel loro rapporto con gli Stati nazionali. La seconda tesi-fulcro del libro è quella che ne ispira il titolo: premesso che la costruzione della Comunità Europea si concentrò anzitutto sugli accordi commerciali e sui risultati economici del mercato comune a scapito della cultura – cosa che Jean Monnet riconobbe, seppur tardivamente, come un errore di priorità – Luciana Castellina afferma senza mezzi termini che «quel che omogeneizza i cittadini europei non è l’Europa, sono gli Stati Uniti»:
«È attraverso la loro cultura che in realtà comunichiamo fra noi, è questa cultura che ci è comune, assai più di ogni altra. Non si tratta solo della lingua che usiamo per parlarci, l’inglese: basti guardare alle cifre del mercato audiovisivo europeo, 70-75% occupato da prodotti americani più un po’ di prodotti nazionali, quelli degli altri paesi europei che ci arrivano attraverso un forellino del 5-7%. Ad ogni cittadino europeo – francese o greco o svedese o spagnolo – sono assai più familiari i volti e i nomi del mondo dello spettacolo americano, così come i paesaggi di quel paese, che quelli del proprio vicino; e questo vale anche per i modelli di vita, sempre più mcdonaldizzati, anche quando formalmente pretendono di essere etnici e magari si chiamano Pizza Hut» (p. 17).
Certo, l’Europa, «inventata dai Greci», è sempre stata policentrica, una e molteplice, e ogni tentativo di tracciarne i confini si espone a scelte evidentemente arbitrarie, inevitabilmente parziali e discutibili. La storia della cultura nella costruzione dell’Europa inizia con un messaggio di Denis de Rougemont sulla necessità di ideali opposti a quelli sovietici e americani – discorso dimenticato e caduto nel vuoto – e con l’emblematica vicenda del Centro Europeo della cultura, nato a Ginevra nel 1950 e trasformato in fondazione quattro anni dopo:
«Proprio per la collera del suo animatore, Denis de Rougemont, una nuova Federazione viene creata nel 1960 ad Amsterdam: qui potrà infatti godere della generosità della regina d’Olanda, mentre in Svizzera era rimasta ignorata e senza risorse. Il Comitato americano per l’Europa unita, gran tesoriere delle iniziative europeiste dell’epoca, gli aveva negato l’aiuto promesso, invece devoluto ad un comitato di propaganda».
Partendo da qui e dai chiaroscuri della vicenda (ricordando ad esempio come dall’organismo ginevrino destinato a vivacchiare nacque il centro di ricerca scientifica Cern), Luciana Castellina ci accompagna in una lunga storia di routine e di ripensamenti critici, di incontri riusciti e di bricolage deludenti, di aspettative mancate e di iniziative innovative, di azioni comuni e di resistenze statali particolari. Tra i momenti segnalati come più significativi, il “libro bianco” della Commissione Delors su “Crescita, competitività, occupazione” (1993), che definiva le vie da percorrere in vista del XXI secolo concentrandosi sul «settore della produzione immateriale», sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: è in questa prospettiva che si coglie bene come la storia della produzione audiovisiva europea possa diventare un osservatorio privilegiato per seguire le dinamiche della cultura nella costruzione dell’Europa e nel rapporto in tal senso tra Europa e Stati Uniti. Altro episodio cruciale è il rilancio delle esigenze della Commissione Delors a Lisbona (2000), con un Consiglio dei ministri dell’Unione Europea che puntò sulla «società della conoscenza» segnalando l’«importanza della cultura per il fatto dello sviluppo economico» (p. 107). Anche in questo caso, tuttavia, Luciana Castellina segnala il persistere di alcune contraddizioni, prima fra tutte quella determinata dal costante richiamo alla competitività: «il che ha portato come risultato pratico, al di là delle dichiarazioni, alla riduzione anziché all’aumento proprio di quanto è più necessario per promuovere una società della conoscenza: la spesa pubblica e la regolamentazione del mercato» (ibidem).
La complessità del saggio risalta ulteriormente considerando due capitoli come il settimo e il nono: l’uno, dedicato alla “nuova filosofia” degli internauti, traccia i contorni del dibattito sull’evoluzione contemporanea delle piattaforme mediali e lo legge “in controluce” rispetto al tema generale della cultura in Europa; l’altro, mettendo a tema La convenzione sulla diversità culturale, parte dalla “Convenzione per la protezione e la promozione delle diverse espressioni culturali” dell’UNESCO (2007) per impostare una riflessione non idilliaca su tutto ciò che il termine “diversità culturale” comporta. In particolare, come nota François De Bernard (Europe, diversité culturelle et mondialisation, L’Harmanattan, Paris 2005), chi usa il termine “diversità culturale” parla di conflitti, mentre il limite della Convenzione sarebbe proprio quello (secondo De Bernard) di nascondere i conflitti. Luciana Castellina prosegue riferendosi al tema dell’uso del “chador” (della libertà d’uso del velo come espressione culturale), in un paio di varianti arrivate all’attenzione della cronaca, ed osserva tra l’altro quanto segue:
«La dimensione assunta dai processi migratori pone infatti un problema di riduzione delle diversità, affinché la convivenza sociale sia facilitata e serve perciò un minimo di regole e di valori comuni da rispettare. Ma chi decide cosa quel minimo deve essere? Lo Stato che governa il territorio, ispirato alla cultura maggioritaria? No, dovremmo dire. Ma senza per questo rischiare di conferire un analogo potere a chi controlla le comunità minoritarie, che potrebbero a loro volta impedire una libera scelta ai loro membri (è certamente la condizione, in molti casi, delle donne)» (p. 226).
La possibilità di declinare al singolare o al plurale la cultura europea non può del resto prescindere dai grandi movimenti migratori: sottolineando che le culture non devono essere pensate come “specie” da «conservare come sono» (p. 235) e che storicamente devono potersi contaminare e cambiare («pena la perdita del dinamismo essenziale alla loro funzione antropologica», p. 236), l’Europa vive – e dovrà affrontare – la complessità della questione sia con riferimento alle proprie cittadinanze sia pensando alle espressioni culturali degli immigrati. Diversità, appunto, significa conflitto: ma il conflitto è una conditio sine qua non della generazione e della trasformazione. Il punto è che, prendendo atto del «difficile ingresso» della cultura «nella costruzione dell’Europa» (che il sottotitolo del libro evidenzia e denuncia), dovrebbe seguire la consapevolezza del fatto che attraversare generativamente i conflitti della declinazione singolare e plurale del termine “cultura” non potrà essere fatto se non attraverso la cultura stessa: il che significa, tra l’altro, attraverso l’investimento in cultura a prescindere dalla rendicontazione in termini di sviluppo economico (che pure c’è).
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