Blue Film, Italia 2008, 77'
Recensione di Antonio Castagna.
Le Brigate rosse nacquero dalle parti di Reggio Emilia, sulla collina dove ancora si trova il ristorante Costaferrata. È lì che Gianfranco Pannone regista e co-autore e Giovanni Fasanella, l'altro autore del documentario, hanno portato un gruppo di 5 persone, tra le quali Alberto Franceschini e altri che all'epoca facevano parte del Collettivo dell'Appartamento. Erano ragazzi per lo più militanti della Federazione dei Giovani Comunisti, che si erano stancati delle timidezze del partito. Avevano in mente la rivoluzione e come mito di riferimento quello della resistenza. Alcuni erano operai, tutti avevano avuto in famiglia uno o più parenti partigiani, alcuni morti. In quel ristorante il gruppo di Reggio Emilia incontrò Renato Curcio e Mara Cagol, i milanesi. Dopo quel raduno di 3 giorni, molti entrarono in clandestinità.
Alla discussione che fa da filo conduttore al film partecipano, oltre a Franceschini, altri due di coloro che entrarono in clandestinità e che hanno scontato molti anni di galera, e due che invece scelsero altre strade. Ma nel loro reincontrarsi e raccontarsi non ci sono distanze date dalle scelte diverse, piuttosto il piacere di trovarsi dopo tanti anni e rileggere un pezzo di storia di cui sono stati protagonisti.
Il montaggio è fatto di scene del pranzo nel ristorante sulla collina e dal racconto di Reggio Emilia, attraverso le loro voci, il girovagare per le piazze e le vie dove da ragazzi erano stati protagonisti di episodi e di manifestazioni, dal racconto del retroterra politico e sociale della città. Il film ha ritmo e permette di capire molte cose sul clima in cui nasce quella scelta. Ma soprattutto permette di leggere un fatto doloroso come la storia del brigatismo rosso senza la cappa pesante del giudizio storico. Sono loro stessi, gli ex brigatisti, a un certo punto del pranzo a darsi delle “teste di cazzo”, ad essere felici di non avere preso il potere perché sarebbero stati peggio di Pol Pot, il famigerato dittatore cambogiano, a piangere per aver ammazzato vigliaccamente in carcere anche compagni che avevano confessato.
Rileggere quei fatti dandogli un contesto, volti, intenzioni, non rende meno terribili quegli anni e meno condannabili le azioni. Ma permette di comprendere, di ricollocare quelle vicende in una storia che è il grembo che alleva le scelte individuali e collettive. È bellissima a proposito la testimonianza del professor Corghi che tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 era segretario cittadino della Democrazia Cristiana (che prendeva il 6% alle elezioni). Ricorda un episodio, un incontro con quelli che allora erano semplicemente i ragazzi del Collettivo dell'Appartamento. Racconta come gli fossero sembrati più aperti e maturi di tanti del PCI che invece nascondeva con l'ideologia tante rigidità e tanta difficoltà di capire i tempi. E loro, parte dei quali sarebbero diventati brigatisti, riconobbero in Corghi una intelligenza e una apertura che non vedevano nel partito da cui erano appena usciti.
Il PCI negli anni successivi sarebbe diventato in quelle zone il principale soggetto economico, grazie alle cooperative, e avrebbe contribuito a erodere le sue stesse ragioni di esistere. In quella trasformazione è forse possibile comprendere qualcosa di più della crisi della sinistra di oggi. Il racconto di quella vicenda non nega la necessità del giudizio penale, o del giudizio storico, non assolve e non perdona. Non c'è bisogno di perdonismi ipocriti. Però permette di riconoscere anche le ragioni di chi ha sbagliato più di tutti. La difficoltà che abbiamo a ripercorrere e rileggere la storia attraverso tutte le voci ci dice della difficoltà individuale e collettiva di riconoscere gli sbagli di chi ha sbagliato meno, che è ognuno di noi, in quanto attore di una vicenda storica. È questo conflitto interno che la visione di “Il sol dell'avvenire” permette di mettere in luce. Il rifiuto degli ex dirigenti del PCI a partecipare al documentario (gli autori hanno montato anche le telefonate con i dinieghi) da una parte impoveriscono il racconto, dall'altra lasciano emergere un fenomeno di rimozione che forse ha qualcosa ha a che fare anche con l'attuale crisi della sinistra in Italia.