A proposito del libro di Gianluca Cepollaro, Le competenze non sono cose. Lavoro, apprendimento, gestione dei collaboratori
Guerini e associati, Milano 2008
Di Ugo Morelli
Mi sono sempre fermato a guardare, con insistenza se non visto e con discrezione se notato, ma comunque con attrazione, le persone che si parlano mentre lavorano. Si parlano nelle pause, mentre mangiano o bevono il caffè, così come si parlano in brevi furtivi momenti tra un gesto e l’altro, ricamando di senso il tempo del fare. Hanno lampi di luce negli occhi ed esprimono fini complicità. Mostrano confidenza e abitano piccoli spazi per tempi magari brevi, contraddistinti da un’intensità concentrata. Non mi ha mai interessato cosa si dicono, bensì la comunanza e il senso vicendevole di quelle brevi e strette tessiture.
Quelle trame del vivere lavorando imparai a riconoscerle grazie alla copertina di un libro che a lungo studiammo in profondità e in estensione negli anni passati: Mercato del lavoro e classi sociali di Massimo Paci, pubblicato da Il Mulino. Su quella copertina vi era un disegno di Covili, Mangia pane e coltello, e in quei tratti riconobbi da subito quello che avevo quotidianamente conosciuto nella mia infanzia e adolescenza. Fu, appunto, un riconoscimento. I braccianti e i contadini si univano in gesti comuni al momento di mangiare, distesi sull’erba o sulle zolle, al sole o all’ombra degli alberi, a seconda delle stagioni. Avevano in mano i coltelli che tenevano sempre in tasca, legati con una catenella. Coltelli di forme diverse, con manici bianchi o di osso, con lame dritte o ricurve, indispensabili in ogni modo per tagliare il pane duro di giorni e le rare e minuscole croste di formaggio pecorino o vaccino. La calma con cui tagliavano il pane dava alle loro sagome un carattere scultoreo, reso ancora più evidente dalla solennità dei gesti con cui toccavano il povero cibo prezioso. Fu quel disegno a riannodare i fili della memoria e le tessere del senso; a far emergere il senso come l’effettiva trama del valore del lavoro per le persone che lo svolgono. Un humus senza il quale non si capisce quel vivere facendo, in vista di un’opera in cui riconoscersi più o meno intensamente, che è il lavoro. Quel parlarsi riservato e denso accompagnato da cenni di sorriso, ammiccamenti, pieghe tristi dello sguardo, allusioni o sdegni, è un condensato di cosa significa il tempo di lavoro per le persone; di quanto condensato di vita attraversi l’esperienza lavorativa. Se è vero che “lavorare stanca”, come ha scritto Cesare Pavese, è allo stesso tempo e per le stesse ragioni vero che “lavorare manca” se quell’esperienza è rarefatta, prosciugata di senso o addirittura inaccessibile, come oggi spesso accade. C’è da stupirsi della superficialità con cui un numero così elevato di punti di vista, spesso anche di cosiddetti studiosi, di consulenti e di imprenditori e manager, oltre che di politicanti con molto potere e altrettanta arroganza, parlano del lavoro. Questo che sta accadendo sotto gli occhi indifferenti e spesso compiaciuti di chi ha responsabilità politiche e di chi ha il potere di escludere ed emarginare per perseguire la massimizzazione dei propri tornaconti. La comprensione dell’esperienza lavorativa, in particolare nelle sue trasformazioni attuali, è un’esigenza sempre più impellente e le stesse discipline che potrebbero occuparsene mostrano un ritardo non sempre innocente.
Ben venga perciò un libro come questo di Gianluca Cepollaro, Le competenze non sono cose. Lavoro, apprendimento, gestione dei collaboratori, Guerini e associati, Milano 2008. La chiarezza del contenuto, il rigore dell’analisi e l’agilità del testo ne fanno una buona via d’accesso a comprendere alcuni degli aspetti più rilevanti del lavoro, oggi. Lo studio di Gianluca Cepollaro sulle competenze nel lavoro si colloca all’interno del tentativo di creare un approccio che tenga conto della dimensione relazionale del lavoro e della sua complessità psicodinamica. Il libro di Cepollaro ha alle spalle una tradizione che risale alle ricerche sul lavoro e l’organizzazione iniziate a metà degli anni cinquanta del ventesimo secolo al Tavistock Institute di Londra da Elliot Jaques, e altri che si muovevano sulla scia delle ricerche di Melanie Klein e Wilfred Rupert Bion. In Italia è stato Luigi Pagliarani ad importare quell’approccio e a fecondarlo di inedite prospettive di approfondimento con la messa a punto della prospettiva psicosocioanalitica nello studio del lavoro. Un altro decisivo riferimento del lavoro di Cepollaro è la distintiva e profonda esperienza di ricerca di Francesco Novara sul lavoro umano, condotta in particolare nella Olivetti di Adriano Olivetti. Di particolare importanza è, da ultimo, per gli studi di Cepollaro, l’insieme degli studi di Gian Piero Quaglino che rappresenta probabilmente oggi uno dei vertici più rilevanti negli studi psicodinamici della vita organizzativa. Il libro di Cepollaro nasce protetto da questi riferimenti essenziali e cerca di comprendere le competenze come proprietà emergenti delle relazioni lavorative.
Il volume definisce la questione e indica con precisione la via per una prassi organizzativa che voglia valorizzare le competenze con attenzione ed efficacia. Si potrà così riconoscere che non nella prescrizione si esaurisce il senso del lavoro, ma nel serendipity non deterministico, bensì probabilistico, in cui le persone, mentre fanno, si parlano, cercano, creano, si riconoscono e vivono.
Come ha segnalato James March nel suo libro sull’arte della leadership, non basta essere “idraulici”, cioè utilizzatori di strutture, ma è necessario esser “poeti”, cioè capaci di impegnarsi responsabilmente per creare relazioni e situazioni efficaci, nel lavoro e nella vita organizzativa.
Pubblicata sul Corriere del Trento il 27/11/2008.