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Gianluca Cepollaro, Le competenze non sono cose. Lavoro, apprendimento, gestione dei collaboratori

Guerini e associati, Milano 2008
Recensione di Francesco Novara

copertinaAnni fa, ho avuto occasione di ascoltare un consulente prestigioso che proponeva a un pubblico di direttori del personale una lista di “competenze” per l’ analisi delle mansioni e dei ruoli. Sapevo che negli Stati Uniti importanti società di consulenza avevano tabelle di “competenze” (che differivano sensibilmente nelle definizioni e nel numero) e le proponevano alle aziende.
Mi venivano in mente i vecchi elenchi di “attitudini” della job analysis taylorista. E constatavo come il lavoro di una persona fosse ancora visto come una prestazione scomponibile in unità elementari, standardizzate come “oggetti”, “cose” impersonali ricomponibili in puzzles diversi.
Ma oggi dovrebbe essere acquisito che “attitudini” e “competenze” sono componenti della identità lavorativa di una persona, e sono messe in atto secondo il modo in cui la situazione reale consente di vivere questa identità complessa, che è al tempo stesso personale, professionale, organizzativa, culturale.
La persona che entra nel mondo del lavoro vive i vari aspetti di questo come consonanti o dissonanti con l’ identità costruita attraverso le proprie esperienze : su questa identità personale si fonda il sentimento della continuità della propria esistenza come unità vivente distinta e diversa da tutte le altre lungo le modificazioni che si producono nel corso della vita.
La preservazione di quella che si definisce “la struttura del sé” è appunto consentita dall’ “organizzazione psicologica dell’ esperienza”, cioè dall’ integrazione della vita conoscitiva, emozionale, intenzionale in un “senso” che unifica, orienta, consente di “divenire quello che si è”.
Nella vita lavorativa l’ identità personale si arricchisce delle connotazioni dell’ identità professionale, ossia delle conoscenze acquisite e delle competenze applicate nei compiti individuali (dall’ intimità del proprio corpo e della propria mente con la materia lavorata, con i temi e con gli strumenti di lavoro, all’ elaborazione di questa esperienza) e nei comportamenti di ruolo (dalla condivisione dei quadri concettuali della professione alla loro consueta applicazione operativa).
Quando la persona esercita la competenza professionale in un contesto organizzato, essa ( se non è assoggettata alla weberiana “gabbia di ferro” gerarchico – burocratica o a pratiche manipolatorie) può contribuire attivamente a strutturare le relazioni in tale contesto, a utilizzare i vincoli e i condizionamenti come legami atti al conseguimento di obiettivi comuni.
Nella collaborazione di varie conoscenze professionali e di ruoli organizzativi diversi si sviluppa la competenza e l’ identità organizzativa delle persone.
Riprendendo una metafora fondamentale del pensiero di Jacques Lacan (“L’ Io è il riflesso dello sguardo dell’ altro che lo riconosce come unico”) si può ben dire che l’organizzazione “sana” è uno specchio che offre a ciascuno la possibilità di costruire un’ immagine professionale di se stesso.
Ancora in prospettiva psicoanalitica, per Erik Erikson l’ identità personale non è solo il risultato di un processo di sintesi delle identificazioni successive (genitori, insegnanti, individui e gruppi di riferimento) lungo cui avviene lo sviluppo individuale, ma anche della conferma dell’ individualità che la società opera attraverso attribuzioni di ruolo, riti di passaggio…E mentre la società sottopone l’ individuo a questa verifica e conferma, “ne viene a sua volta storicamente verificata, poiché l’ individuo è indotto a mettere a disposizione dei processi societari quell’ energia ‘libera da conflitti’ che egli è stato capace di far sopravvivere ai conflitti infantili”. Da questa interazione dipende “l’autoverifica nei confronti del lavoro”.
Ma lo “specchio” organizzativo della metafora lacaniana manca a chi si trova a lavorare con altri provvisoriamente (ossia accidentalmente, non programmaticamente). È una vita lavorativa “realizzata da stranieri fra stranieri” come quella nella città odierna analizzata da Zigmunt Baumann. E l’ io anche lavorativo diventa “una identità “cancellabile e riutilizzabile”, sostituibile e riciclabile, fabbricata “come la postmodernità in plastica biodegradabile”. Se il percorso di una vita lavorativa è casuale e discontinuo, la coerenza progettuale e la longlife education cedono il passo – come constatano Kenneth Gergen e altri psicologi – a “una condizione multifrenica che consiste nel navigare una corrente dell’ essere mutevole, concatenata e controversa : “un ‘sé inautentico’, un ‘non sé’ ”.
Le ricerche condotte da Richard Sennett in varie situazioni e ambienti lavorativi mostrano che “il capitalismo a breve termine minaccia di corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra di loro e li dotano di una personalità sostenibile…i tratti permanenti della nostra esperienza emotiva, che si esprime nell’ impegno verso altri e nella capacità di porsi e perseguire obiettivi a lungo termine”. Il carattere, come dimensione etica che fonda il valore attribuito ai nostri desideri e alle nostre relazioni, è “corroso” dove i rapporti non consentono un’ assunzione di responsabilità riconosciuta, una “identificabilità etica” (mentre abbiamo bisogno di qualcuno cui rispondere e che sia responsabile verso di noi). Ivi è compromesso lo sviluppo della solidarietà, che si alimenta nella consuetudine, nell’ impegno e sostegno reciproco, nel radicarsi della fiducia.
L’ attentato all’ “identità lavorativa” e sociale può colpire l’autoimmagine e compromettere la consistenza della personalità, come rilevano gli psicopatologi che vedono crescere stati di borderline, situazioni di sofferenza non definibili nelle classiche categorie nosologiche dei disturbi mentali.
Gianluca Cepollaro propone un percorso di riconoscimento delle competenze (rappresentandole, descrivendole, negoziandole, progettando e intervenendo nelle organizzazioni) che si intona all’ esigenza di coniugare il riconoscimento dei fatti e dei problemi organizzativi (con un approccio analitico, formale, qualitativo) e quello delle valutazioni e interpretazioni concordi e discordi di coloro che li producono (con un approccio fenomenologico, etnografico, clinico). Il sistema delle attività si informa al sistema dei significati vissuti da coloro che le svolgono.
È riconoscendo in un’ organizzazione di uomini un purposeful system , comprensibile solo considerando gli obiettivi e le intenzioni di cui sono portatori autonomi individui e gruppi, che si riconoscono gli apporti distintivi dei loro contributi, e si ravvisa la “costruzione” personale e interattiva delle competenze. Costruzione ovunque intonata alla “cultura”propria di ogni organizzazione umana, la quale è radicata in assunti divenuti inconsapevoli ma è sollecitata ad evolvere dall’ incessante evoluzione dell’ ambiente nel quale è generata e che essa contribuisce a generare.


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