Rizzoli, 2008
Recensione di Giuseppe Varchetta.
La scena è quella usuale – verrebbe da dire dolorosamente usuale – dell’inaugurazione di un centro tecnologico avanzato, produttore di energia. Arriva il ministro, accolto dalle autorità locali, dal management, alla presenza, immaginiamo, di impiegati e operai, collaboratori nel centro tecnologico avanzato. Nel discorso inaugurale del ministro si coglie questa frase: “Dopo tanti sacrifici, anni di lavoro e qualche vita umana, si è costruita questa modernissima centrale, dove tutto è controllato e tutto è sicuro”. Torna in mente Primo Levi, l’antiretore per eccellenza; ricordate? “Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più”.
Quel ministro, come proclamava Antonio sul cadavere di Cesare, è “uomo d’onore”. Tutto questo non ha impedito al ministro – con un eloquio di scorrevole naturalezza – di collimare la perdita di “qualche vita umana” con “tanti sacrifici, anni di lavoro”, all’interno di un’omologante poltiglia nella quale la vita umana varrebbe quanto sacrifici finanziari e investimenti di tempo di lavoro. È inutile, e per certi aspetti fuorviante, interrogarsi sull’etica, sulla onorabilità di quanti, come quel ministro, si lasciano “sfuggire” proclami siffatti come una possibile spia per comprendere tali cadute. La traccia utile non è una riflessione sull’etica, ma sulla cultura. Ci si riferisce a un sistema di esperienze valutate di successo che, lungo la traccia di decenni, ha radicato nel nostro Paese una cultura che ammorba molti ceti, molti ruoli, molti attori con ruoli diversi operanti nelle organizzazioni, tutti allineati nel sentire il lavoro come un universo cognitivo, emotivo e gestionale diverso dal resto della vita e per il quale la valutazione si allinea su valori e parametri diversi e in ogni caso “peculiarmente inferiori” a quelli utilizzati per gli altri mondi della nostra vita, in particolare per la famiglia e per l’egoità.
La prospettiva che nutre una siffatta cultura è quella della separazione: da una parte l’universo familiare, l’universo dell’io, e in genere l’universo della cosiddetta vita privata; dall’altra, l’universo del lavoro, dell’organizzazione, del business. I valori che sottendono i parametri valutativi per tali due universi, considerati come tali separati e non accostabili, sono diversi. Il lavoro, l’organizzazione, il business sono il luogo governato dai valori “maschili” dell’aggressività, dell’efficienza costi quel che costi, dell’accettabilità acritica del dolore, fino a ipotizzare come possibile, per certi aspetti come coerente con le situazioni organizzative, la possibilità dell’incidente capace di minare la salute fisica e mentale di un collaboratore. Di lavoro si può morire: è in questo “può” che risiede l’orrore di questa cultura. Se può accadere, se tale ipotesi è nel cuore e nelle menti di chi gestisce, l’evento doloroso accade e quando accade, accanto alla sincera disperazione, al sincero cordoglio, si allinea, quasi immediatamente, la rassegnazione per un evento che è sì doloroso, che è sì catastrofico, ma che, in fondo, paga un debito nei confronti di un ineluttabile che il lavoro non può non portare con sé.
Molti commentatori di buona volontà sovente richiamano a giustificazione di tutto questo la maledizione biblica dopo il peccato originale, con questo semplificando ogni riflessione sul dato fondamentale che emerge dalla Bibbia, l’ambiguità del lavoro: il Libro non idealizza ma contemporaneamente non identifica nel lavoro un destino di espiazione di una caduta originale. In realtà, la scrittura biblica mostra “la capacità di lasciare affiorare, osservare e comprendere il lavoro nella sua fenomenologia e nella sua verità, intrecciate di fattori ora complementari, ora antitetici, senza nasconderne né omettere di valutarne ambiguità e contraddizioni”[1]. Per cogliere l’ambiguità di ogni esperienza umana è essenziale non separare, ma avere un reticolo cognitivo e una capacità emotiva di tenere insieme i pezzi pur diversi dell’umana esistenza. La vita è una, che si svolge su scenari diversi, percorsi da donne e uomini che portano tutto il loro sé in tutti gli scenari che percorrono, adattandosi, ma continuamente costruendo mondi e con-fondendo in questo costruire le stratificazioni precedenti, faticosamente elaborate. Questa è la vita, questa la splendida, ambigua unitarietà dell’umano. Questo mistero è quanto quel ministro e tutti i suoi simili non sanno cogliere, perché privi di una capacità di contenimento adeguata a tale complessità.
Tutti questi pensieri hanno accompagnato la lettura dei 26 passaggi dell’ultimo libro di Marco Rovelli sul perdere la vita sul lavoro. Non è un lavoro organico, le colleghe e i colleghi della Direzione del Personale non si aspettino un trattato professionale. “Come è possibile che nell’Italia tecnologicamente avanzata di questo inizio di terzo millennio imprenditori, manager, sindacalisti, impiegati, e financo operai, accettino con rassegnata passività la morte quotidiana di operatori sul lavoro? Come è possibile che accanto a un indubbio dolore, nei cuori di questi operatori alberghi insieme un fatalismo predefinito che accetta – lo ripetiamo – come un dato ontologico del lavoro umano, il poter morire? Sono le stesse persone che nella loro vita cosiddetta privata, nelle loro case, in famiglia, non riescono neppure a immaginare di essere spettatori astanti e impotenti di un evento lesivo della vita di loro familiari e di loro ospiti. Intorno a quesiti di questa natura si arrovella con grande generosità contributiva Marco Rovelli.
È un libro del cuore, ma sorretto da una mente provvida, che ha saputo compiere un viaggio lungo le strade del nostro Paese alla ricerca di testimonianze capaci di far comprendere – non di far capire – quel tristissimo primato per il quale nel nostro Paese in ogni anno muoiono 1300 persone sul lavoro, 4 al giorno, e che dà al nostro Paese il record in Europa di morti sul lavoro in valore assoluto. Non si può non pensare che tali morti siano di serie B rispetto ad altri morti, per esempio quelli della problematica, peraltro fondata e ultralegittima, della sicurezza e che ha allarmato tutte le forze politiche durante le recenti elezioni e che è uno dei punti cardine del programma dell’attuale governo. Di nuovo separazione: da una parte morti importanti, diciamo di serie A, dall’altra morti scontati, diciamo di serie B, quando per un’etica anche laica, non solo cristiana, i morti dovrebbero essere tutti uguali, capaci cioè di generare lo stesso dolore e la stessa volontà politica di cambiamento. Questo non accade nel nostro Paese per i morti sul lavoro. La Direzione del Personale conosce professionalmente tale verità ed è da tempo impegnata a testimoniare nelle sedi più opportune e presso il top management l’esigenza di un profondo cambiamento. La lettura del pamphlet di Marco Rovelli è un utile strumento di riflessione, un prezioso conforto nel continuare questa battaglia insieme civile, manageriale e imprenditoriale.