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Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al papa

Laterza, 2008

Recensione di Marco Aime


copertinaNon so quante lettere ricevano il Papa e i suoi collaboratori. Di certo non molte coraggiose e intelligenti come quella che Francesco Remotti (Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza 2008) indirizza al Pontefice, proponendo una profonda riflessione sull’idea di natura e di naturalità che caratterizza molti discorsi di Benedetto XVI, ma soprattutto sulla quantità di natura che impregna le nostre umane esistenze.
Ogni società del pianeta è sinceramente convinta che i propri costumi, il proprio modo di pensare, di agire siano assolutamente «secondo natura». Pensiamo, per esempio, a come definiamo il processo di attribuzione della cittadinanza italiana a uno straniero: «naturalizzazione». Un termine che rimanda a una concezione naturale della nazione, quando invece, come affermava lo storico francese Ernest Renan, «l’esistenza di una nazione è un plebiscito quotidiano». L’essere sociale deve per forza divenire un essere nazionale. Con una finzione che trasforma la nascita in nazione, in modo che tra i due termini non possa esserci alcuno scarto, i diritti finiscono per essere attribuiti all’uomo solo nella misura in cui egli è il fondamento del cittadino. Ecco allora, per esempio, che i rifugiati, gli immigrati diventano, nell’ordinamento dello stato-nazione moderno, un elemento inquietante, perché spezzano la continuità tra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità, mettendo in crisi la finzione originaria della sovranità moderna.
Finzione è su questa parola, che Remotti impernia gran parte del suo discorso. Sullo sfasamento tra ciò che pensiamo e ciò che invece facciamo. Prendiamo il caso della famiglia, tema quanto mai discusso di questi tempi e oggetto di dispute oltremodo accese. L’antropologia ci ha mostrato in quanti e quali modi è possibile organizzare i rapporti di parentela. Famiglia è un termine che indica non un modello definito di relazioni tra coniugi, tra genitori e figli, tra consanguinei e affini, ma la caratteristica umana di dare forma a certi rapporti, alcuni dettati dalla natura, come quello tra genitori e figli, altri assolutamente arbitrari. Non esiste parentela in natura, e nemmeno la famiglia, perché se così fosse sarebbe di un unico tipo.
Ecco allora, ci ricorda Remotti, che noi, fingiamo la «nostra famiglia», nel senso che la produciamo sulla base delle nostre scelte e poi facciamo ancora una volta finta, che tale opera di costruzione e di modellamento non ci sia stata. Arriviamo così a pensare che sia naturale, ma attenzione, c’è un pericolo dietro a questo: diventa inevitabile pensare che tutto ciò che è diverso venga considerato inesorabilmente innaturale. Di questo ci ammoniva gia Montaigne quando diceva: «La realtà è che ognuno definisce barbarie quello che non è nei suoi usi» ed eravamo nel XVI secolo. Purtroppo, non molto è mutato sotto il cielo e, come ha scritto Barbara Spinelli, questi sono tempi in cui «lo Zeitgeist, “lo spirito del tempo” esalta la “naturalezza” e non più l’artificio difficile e arzigogolato del vivere insieme civilmente».
Aveva davvero Ragione Thomas S. Eliot quando scriveva: «La razza umana non può sopportare molta realtà»? Intrecciando le voci dei filosofi con gli studi degli antropologi in quegli angoli di mondo che Lévi-Strauss ha definito «spazzature della storia» Remotti ci mostra l’ambiguità del comportamento umano. Da un lato gli uomini conoscono la diversità e i mutamenti temporali, dall’altro le società umane tentano di stabilizzare i propri costumi, per farli apparire naturali, e opporsi al flusso della storia. Esistono società che accettano una stabilizzazione relativa, più incline a pensare che la stasi sia una fase temporanea e società che, invece, pensano a una stabilizzazione assoluta, eterna. È il caso delle religioni monoteiste.
C’è una grande differenza tra questi due atteggiamenti, il primo concede uno spazio di negoziazione, il secondo no. «Sono contro l’aborto, ma sono favorevole alla sua legalizzazione» diceva Pier Paolo Pasolini, sintetizzando profondamente la differenza tra coloro che vogliono imporre agli altri la propria forma di vita e quanti, invece, ritengono che il rispetto dell’altro impedisca di farlo.
Nella conclusione, Remotti si rivolge al Papa con l’umiltà del laico (che è anche l’umiltà dell’antropologo) dicendo che non basta fermarsi davanti alla varietà umana, che occorre andare oltre il relativismo e ricucire, per scoprire come i costumi umani «si presentino variati e simili e diversi nello stesso tempo, in questo o quel contesto».
Remotti inizia il suo percorso con una sorta di dialogo tra Descartes, che riconosce sì la varietà dei costumi, ma afferma l’esistenza di uno strato di roccia su cui tutto dovrebbe poggiare, e Pascal che al contrario, sostiene che esiste un vuoto, che non c’è natura e che «Il costume è la nostra natura». Tornano allora alla mente i versi di quel profondo scrutatore dell’animo umano che fu Ferdinando Pessoa, che fa dire al suo guardiano di greggi:

Vidi che non c’è Natura,
che la Natura non esiste,
che ci sono monti, valli, pianure,
che ci sono piante, fiori, erbe,
che ci sono fiumi e pietre,
ma che non c’è un tutto a cui questo appartenga,
che un insieme reale e vero è una malattia delle nostre idee.
La Natura è parti senza un tutto.
Questo è forse quel tale mistero di cui parlano.

Marco Aime


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