Editori Laterza, Bari, 2005
Recensione di Sefano Pollini
In “Contro il relativismo” Giovanni Jervis, ordinario di Psicologia dinamica all’Università “La Sapienza “di Roma, con linguaggio piano e accattivante ci aiuta a riflettere sui limiti del relativismo e le sue derive.
I relativisti – sintetizza Jervis – partono dall’ipotesi che i fatti di per sé non ci dicono nulla di preciso, conta solo il modo di vederli; in altre parole non esistono i fatti, ma solo interpretazioni di fatti. Il relativista ritiene che non esista un criterio per affermare che una cultura, un comportamento, un assetto sociale sia migliore di un altro. Esalta le differenze e apparentemente si pone in una posizione inattaccabile di massima apertura e tolleranza.
Questo modo di pensare e vedere il mondo è uscito dai ristretti circoli intellettuali e si è affermato a livello pubblico e sociale. Le affermazioni del senso comune sono intrise di relativismo che comportano nefaste conseguenze nel comportamento e nel modo di giudicare. Scrive Jervis:
«Si parte da un “cosa ne sappiamo in fondo” e si passa attraverso “tutti hanno le loro ragioni”, osservando infine che “ciascuno ha i suoi problemi” e naturalmente “tutti hanno i loro interessi”. Ed ecco discendere una regola di comportamento: non giudicare, non prendere posizione. Eventualmente, quindi, scegliere una linea blanda, assecondante, comunque mai rischiare troppo. Arrivati a questo punto, è già pronta una collana di formule relativizzanti come: “ogni regola ha le sue eccezioni”, “bisogna valutare caso per caso”,non smuovere le acque”, “ognuno si faccia gli affari suoi” …Questo atteggiamento ha un nome: disimpegno morale. E quando prevale nel tessuto di una nazione, è probabile che contribuisca a impedirne lo sviluppo» (p.43).
Ecco quindi che le conseguenze della mentalità relativistica si spostano dal piano del conoscere (“le conoscenza sono opinioni”, “non ci sono fatti, ma interpretazioni”) al piano comportamentale che porta al disimpegno, al non prendere posizione: “il concetto di responsabilità non è congeniale al relativismo” (p.59).
Con tale critica, Jervis non auspica il ritorno a qualche forma di dogmatismo o di verità assoluta, ma da laico ripropone semplicemente i valori dell’illuminismo e della razionalità occidentale a cui il relativismo si oppone.
Ciò che caratterizza l’ideologia relativista è una sfiducia nell’idea di oggettività, ma questo conduce, intenzionalmente o meno, ad attribuire un ruolo eccessivo alla soggettività e a spiegazioni “fai-da-te”. Il relativismo è una ideologia che non ha al centro la parola “pluralismo”, ma piuttosto “soggettivismo”. Vi è una svalutazione del pensiero scientifico e di ogni verifica sperimentale, a cui si contrappongono spiegazioni esoteriche, magico-religiose dei fenomeni. Se non ci sono fatti, ma solo interpretazioni, e nessuna interpretazione è meglio di un'altra allora perché negare valore anche a spiegazioni magiche, a fedi o credenze di vario tipo? Questo è un altro dei pericoli relativisti che denuncia Jervis, ribadendo come ciò ostacoli la comprensione della realtà e apra la strada ai fanatismi.
L’autore auspica quindi un ritorno ad un sano realismo, che si ispiri ai principi della razionalità laica illuminista, consapevole dei danni finora provocati da chi nega la differenza fra le opinioni e le conoscenze. Separa in modo netto il pensiero scientifico dal senso comune e dalla metafisica, e questo a nostro avviso costituisce il limite principale del libro.
Pensare per opposti antagonismi, infatti, non ci aiuta ad uscire dalla melassa relativista: ciò che manca a Jervis è il riconoscimento della dimensione conflittuale costitutiva della conoscenza. E’ necessario uscire dalla logica binaria bianco vs nero, scienza vs religione, fatti vs interpretazioni, e riconoscere, per esempio, che senza la metafisica e le credenze è assai difficile produrre nuove idee in ambito scientifico. Ciò che è decisivo è riconoscere che la dimensione conflittuale è altamente generativa, sebbene estremamente difficile da praticare.
Jervis invece contrappone alla razionalità occidentale credenze, fede, religione, pensiero magico, riti e fanatismi, mettendoli tutti sullo stesso piano. Il rischio è quello di cadere in uno scientismo che si ponga come unica spiegazione di tutto, perdendo di vista l’ambito e i limiti del pensiero scientifico.
Dall’altra parte anche il richiamo ai fatti, piuttosto che alle interpretazioni dei fatti, richiederebbe un maggior approfondimento per respingere l’accusa di un realismo troppo ingenuo: ancora una volta l’esclusione della conflittualità dai processi conoscitivi porta a un dualismo insostenibile.