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Ilan Pappe, Storia della Palestina moderna. Una terra due popoli

Einaudi, Torino, 2005

Recensione di Ugo Morelli


copertinaNon esiste né è mai esistita una cultura che si sviluppi da sola, in modo autarchico. Se c’è una parola che non ha niente a che fare con la cultura e l’identità, è la parola “autentica”. L’unica accezione valida e accettabile dell’autenticità riguarda i marchi di fabbrica e le verifiche anagrafiche. Non gli esseri umani. Basterebbe guardarsi e guardarsi intorno, in casa e fuori, per riconoscere che il mondo è qui, e non da ora, con tutta le sue differenze e le sue ricchezze. Nei prodotti e nel cibo, nelle cose che usiamo ogni giorno e ancor più nella nostra lingua e in quelle che chiamiamo le nostre tradizioni. Vivere in un solo mondo è prigionia, scriveva un grande poeta, John Donne, all’inizio del 1600, ed era anche un prete. Un professore americano di antropologia culturale iniziava qualche anno fa il proprio corso chiedendo agli studenti cosa avessero bevuto a colazione la mattina, che stoffe indossassero, su cosa scrivessero, eccetera. Subito dopo segnalava loro che il caffè, la seta, il cotone e la carta appartenevano a tradizioni lontane divenute proprie con l’integrazione culturale. Se si spogliassero le culture dagli esiti dell’integrazione, di esse non resterebbe nulla. Dal punto di vista genetico sappiamo, ormai, che vi sono più differenze fra due trentini che fra un trentino e un sudafricano. Non solo. Ma che si assottiglia sempre più, fino a meno del tre per cento, la differenza genetica fra noi umani e un macaco. Ma allora dove nasce il problema? Come mai la nostra ragione non basta a riconoscere che la differenza è non solo un valore ma una necessità biologica e sociale? Perché accade che la paura e la difesa di qualcosa che è una pura illusione, la cultura autentica, ci fa alzare barricate e muri? Perché si giunge a prese di posizione che, vogliamo immaginare. non lasciano tranquilli neppure chi le esprime? Le differenze culturali, l’idea stessa di razza e le disuguaglianze tra popoli sono fatti storici. Cosa vuol dire? Che li abbiamo creati noi per ragioni relazionali, sociali e politiche. Se li abbiamo creati noi vuol dire che sono modificabili. Per farlo non basta evidentemente un’operazione cosmetica e qualche ora di lezione a scuola. Non si tratta di informarsi sul fatto e basta, come accade per una questione che riguardi gli aspetti superficiali del comportamento. Bisogna chiedersi, appunto, dove nasce il problema e quali sono le ragioni della nostra paura fuori tempo di fronte alla diversità, nell’epoca planetaria. Ogni realtà locale è planetaria non per scelta ma per necessità, oggi. Il problema nasce dentro di noi, nelle nostre menti e nelle nostre emozioni. Abituati nei lunghi tempi storici a pensare il diverso come nemico, tendiamo a far vincere la paura. Guardarsi dentro è difficile,.“L’incapacità di guardare dentro se stessi è una cosa orribile”, scrive Avraham Yehoshua, un importante scrittore israeliano noto anche in Italia, in un libro pubblicato in italiano da Einaudi nel 2005, dal titolo Antisemitismo e sionismo. Yehoshua è in difficoltà oggi in Israele perché ha chiesto, con i suoi contributi, di riflettere sulla paura degli altri, per capire e agire rispetto al problema israelo-palestinese. L’altro dobbiamo prima di tutto conoscerlo e un altro israeliano, storico di grande valore, Ilian Pappe, ha creato gruppi di storici misti, ebrei e palestinesi, per scrivere la storia reciproca di una terra e due popoli. Una testimonianza del suo lavoro è il recente Storia della Palestina moderna. Una terra due popoli, Einaudi, Torino 2005. E’ importante ricordare un testo di Pappe, scritto con Jamil Hilal, Parlare con il nemico, uscito nel 2004 da Bollati Boringhieri. Dalle posizioni individuali alla ricerca e all’educazione, si tratta di allargare l’orizzonte della coscienza seguendo William Blake che genialmente scriveva: “Chi non cambia mai idea è come l’acqua stagnante, alleva rettili nella testa”. La differenza non è equivoca, non è solo incomprensione. E’ ambigua o ambivalente: siamo veri noi e anche gli altri e la terra è la casa comune. Ci vuole il coraggio dell’ambiguità.


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