Bollati Boringhieri, Torino, 2000
Recensione di Antonio Castagna
Luigi Zoja racconta, in uno stile narrativo e appassionato, la vicenda della figura paterna nella storia dell’umanità, evidenziandone i risvolti psicologici per gli individui e per la società.
Il libro è suddiviso in 4 capitoli: Preistoria, Antichità e mito, Modernità e decadenza, Il padre oggi.
La storia del padre parte dall’orda, da quando l’umanità non aveva ancora abbandonato lo stato ominide. È la differenziazione dei ruoli tra maschio cacciatore e femmina occupata nella raccolta e nell’accudimento dei figli a istituire la civiltà, con la nascita del senso della casa, del ritorno al focolare. La curiosità e la voglia di esplorare del maschio sono limitate dal ritorno. L’uomo che fa ritorno al focolare domestico non è più semplicemente maschio, ma padre, capace di responsabilità, di accudimento, e quindi di adottare il figlio.
Tale stato è però costantemente reversibile, e l’uomo rischia spesso la regressione all’orda, quando la capacità progettuale si ferma a vantaggio dell’azione fine a se stessa. La guerra per esempio sarebbe un momento di regressione alle regole dell’orda.
L’età mitica è letta dall’autore attraverso le storie esemplari di Ettore, Ulisse ed Enea: accomunati dall’essere padri, dal progetto e dalla responsabilità. Il titolo del libro si riferisce a un momento dell’Iliade in cui Ettore va ad abbracciare la moglie Andromaca e il figlio Astianatte sulle mura di Troia prima della battaglia fatale con Achille. Nel momento in cui Ettore si volge verso il figlio per prenderlo dalle braccia della madre questi scoppia a piangere. Ettore si accorge che a spaventarlo è l’elmo che indossa e lo toglie.
È in questo gesto la novità. Ettore si mostra infatti al figlio come essere fragile, e la corazza assume un valore fortemente simbolico di indumento che mentre protegge chiude. Togliersi la corazza significa metaforicamente aprirsi alla relazione.
Nella modernità l’ordine del padre viene messo in discussione a favore di un ordine orizzontale. Nella rivoluzione francese è infatti la fraternité a prevalere come ideale. La rivoluzione industriale non fa che acuire le difficoltà dell’ordine tradizionale. Il padre cessa infatti di essere agricoltore o artigiano, il cui sapere e i cui prodotti sono visibili e condivisi con la famiglia, per diventare un operaio che porta i soldi a casa (divide, ma non condivide). Il luogo di lavoro, infatti, non è visibile e, il lavoro, diventato astratto, non è più collegabile direttamente a un oggetto definito. La vicenda narrata dall’autore comprende la vergogna dei figli verso il padre, il suo cessare di essere punto di riferimento e infine la ricerca di punti di riferimento esterni, che motiverebbe la proliferazione di credenze magiche e religiose, l’affidarsi ai guru, a personalità politiche forti.
Attualmente assistiamo a quella che Zoja chiama “la rarefazione del padre” (p. 230), che comprende sia la frequenza con cui le donne allevano da sole i loro figli (regressione dell’uomo verso il maschio), che la rarefazione di riti di passaggio all’età adulta mediate da figure paterne autorevoli. Quello che sembra venire a mancare è un principio verticale, capace di costituire un modello per la crescita, a vantaggio di un principio orizzontale incapace però di innescare processi fondati sulla responsabilità. L’effetto è quello di retrocedere sempre più verso la dimensione del branco, verso l’irresponsabilità. A essere messa in discussione è la possibilità stessa della civiltà.
Dal nostro punto di vista viene a mancare quel perno capace, per differenza, di sviluppare il conflitto, a favore di una marmellata new age dove tutto può essere contemporaneamente vero e falso.
Senza conflitto, parafrasando Zoja, può esserci forse apprendimento, ma non può esserci crescita, viene a mancare infatti il punto di riferimento al quale è possibile fare riferimento nel processo di individuazione dell’adolescente, che lo conduca a fare il salto nella vita adulta. Il gesto del padre, si evince dal libro, è un gesto istituente, e l’essere padre è sempre un’adozione, una scelta. Quella che l’autore sembra proporci è l’immagine di una civiltà che ha tendenzialmente cessato di prendersi la responsabilità di adottare i propri figli, e che ha perciò bisogno del gesto di Ettore, che segna l’istituzione della civiltà, capace di fondare insieme “sia il fiume che l’argine” (p. 45).