Si pensa al confine come a ciò che separa il luogo da noi abitato e che crediamo appartenerci dall' "alter mundus" di cui ignoriamo linguaggio, costumi. Pensiamo al confine come al muro che li separa. Certo, anche la barriera più alta e massiccia sarà esposta alle intemperie e rotta da porte e passaggi.
E tuttavia la sua "linea", lì di fronte al nostro sguardo, continua ad apparirci qualcosa di "sacro". Ma se invece confine non fosse che il nome proprio per dire il nostro stesso luogo, anzi: il nostro stesso corpo? Che cosa definisce un luogo se non il punto, quel suo punto, dove esso tocca l'altro da sè? Non è forse grazie a questa relazione che ci definiamo? Che cosa rende evidente il nostro corpo se non il suo confine, l'istante, cioè in cui esso si espone al pericolo di toccare ed essere toccato, di ferire ed essere ferito? Confine non è, allora ciò che divide, ma all'opposto ciò che di noi, dei luoghi che siamo, è sempre necessariamente con l'altro.
Questo Cum può significare amore o inimicizia, ma rimane comunque
ineliminabile. E solo gli organismi condannati a morte lottano per dimenticarlo o rimuoverlo.
Massimo Cacciari
La Repubblica - 28 aprile 2004