di Carla Weber. / scritto il 11-01-2006
L’esperienza di contenimento e controllo delle emozioni, e l’impegno richiesto dall’uso non distruttivo dell’aggressività, ci porta ad occuparci soprattutto delle difficoltà che incontriamo nel relazionarci, cioè dei conflitti presenti nelle diverse situazioni della vita quotidiana. Accorgersi che esiste anche una incapacità all’accedere al conflitto ci spiazza. Eppure sempre più spesso ci confrontiamo con situazioni relazionali che possiamo definire “schermate”, “atone”, che non hanno accesso ad un sentire vivo, inaccessibili al dolore e ai limiti umani dell’esistenza. Constatiamo ammutoliti gli effetti tragici di comportamenti anaffettivi, asociali e troviamo una certa difficoltà a nominarli, perché ci manca un linguaggio per definire cosa succede. In gioco è il possibile accesso al conflitto, al generare una discontinuità, una rottura, una ferita che rimetta in circolo il sangue della vita, che è capacità di amare e soffrire insieme.
Socialmente siamo sempre più sfidati dalla presenza di un male oscuro che trova terreno di coltura nell’alienazione forzata delle persone dalla possibilità di dare un senso alla vita. L’esclusione da un posto attivo e riconoscibile in una comunità sociale da un lato e l’indifferenza diffusa nelle relazioni che si scambiano, dall’altro, sembrano ben regolate da un liberismo economico che assolve tutti. Assistiamo così alla normalizzazione di forme di scambio funzionali e allo stesso tempo aliene, che invalidano le competenze sociali delle persone e atrofizzano la capacità empatica soggettiva. Ed è proprio questa anestesia affettiva a divenire forza per farcela, per fare i conti con l’essere in vita, a perpetuare nelle forme di comunicazione, negli atteggiamenti e nelle azioni un non senso che diviene senso, l’unico senso possibile. Che fare viene da chiedersi a questo punto.
Una risposta magistrale l’ho colta nel film dei fratelli Dardenne, L’enfant. Come mi capita di constatare negli ultimi tempi, questa forma d’arte che è il cinema, può davvero essere straordinaria per la capacità di cogliere e anticipare le questioni del presente. La nascita di un bambino irrompe nella vita di una coppia di giovani che vivono di espedienti in una città belga. Li costringe ad un cambio di registro nella loro relazione vissuta nel contingente, spietata e dura nel misurarsi con il poco o niente, ma ancora giocosa e infantile. Il nuovo nato impone un salto, una discontinuità forte, la necessità di un passaggio cruciale. Il codice autoreferenziale, ognuno per sé, secondo le opportunità di rimediare qualcosa, non è più appropriato alla situazione. La presenza del bambino richiede di riconoscersi coppia generante e di responsabilizzarsi rispetto a ciò che si è generato. Non c’è molto tempo per il definirsi dei destini. Gli effetti del non accedere alla capacità di amare, di dare senso al procreare, per un giovane uomo sono drammatici. Ma non sarà la presa di distanza, quella che porta a dire “ma che essere umano è quello”, “com’è possibile che non provi orrore per quello che fa”, “cosa deve succedere perché avverta il dolore dell’altro” a introdurre una discontinuità, a produrre un cambiamento effettivo nell’incapacità di sentire di questo padre. Sarà la forza della maternità, la potenza arcaica di un legame inscindibile e inalienabile che al giovane padre non è dato di sperimentare direttamente nella relazione con il piccolo nato, ma ad essa arriverà attraverso un travaglio che gli farà riconoscere il legame d’amore con la giovane compagna. Un legame d’amore che apre la possibilità,attraverso la forza sconvolgente della maternità, di ridare vita a ciò che è morto, atrofizzato o non vissuto in una relazione primaria poco vicariante. La compagna divenuta madre, con la sua posizione di conflittualità aperta e non negoziabile rispetto al proprio bambino, diviene punto fermo che gli permetterà di riorganizzare responsabilmente i frammenti di un esistenza che può trovare un senso nella capacità di una coppia di farvi fronte.
(Carla Weber)