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Romeni, Rom e Italiani: decisioni d’emergenza e conflitti prossimi venturi

di Luca Mori / scritto il 28-11-2007

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Sono cresciuto in un paese degli Appennini che contava meno di cento abitanti, diviso in frazioni separate da qualche centinaio di metri di bosco o di salita. È capitato che qualcuno, nella mia frazione, mi avvertisse di guardarmi dagli abitanti di un’altra, perché infidi. In quelle zone dell’Appennino, a pochi chilometri si trovavano paesi con dialetti così diversi da riuscire pressoché incomprensibili. Il mio punto di vista di bambino sugli altri paesi fu a lungo condizionato da quello che ne sentivo dire nel mio: «quelli di *** sono rozzi, sono come cinghiali»; «quelli di *** sono impertinenti e ciarlatani», «quelli di *** sono molto aggressivi», e così via.
In queste manifestazioni primordiali dello stigma si coglie tutta la dinamica comunicativa resa possibile dall’uso dello stereotipo e dalla conseguente proiezione di un’identità collettiva sugli “altri”. Condizione essenziale affinché lo stereotipo sia confermato è che non si abbiano occasioni di conoscerli davvero, tanti degli altri di cui si parla. Altrimenti, si avrebbero conferme non meno che smentite, e sarebbe molto meno semplice prendere una posizione netta, come quella che lo stigma permette.
La recente vicenda tra Romeni, Rom e Italiani (polemiche, accuse, smentite, scuse, rassicurazioni, aggressioni, decisioni d’emergenza) è un significativo capitolo per una storia dello stigma e delle sue conseguenze pratiche, e potrebbe essere emblematica di conflitti prossimi venturi legati alle migrazioni, o più precisamente all’immigrazione in un Paese il cui Parlamento spesso non riesce non solo a decidere autorevolmente problemi urgenti e reali, ma neppure a discuterli (sull’autorevolezza del Parlamento, vedi il contributo parallelo a questo per Conflict now).
La fenomenologia superficiale dello stigma è chiara: una qualche contiguità o similarità percepita (cittadinanza, aspetto, etc.) asseconda la generalizzazione, più o meno colorata d’intenzioni politiche: si parla come se si conoscesse la totalità di una cosa (res tota), derivandola dalla piccola parte (parva de parte) che si conosce. È un’auto-illusione così facile da smascherare, che la sua persistenza non può essere giustificata dalla “buona fede”. E quando su questi punti la politica è carente di argomentazioni e di cautela comunicativa, rischia di alimentare la retorica dei cori da stadio.
Ci sono Italiani che hanno subito lo stigma confermato dalle statistiche, “quando gli Albanesi eravamo noi”, per citare un libro di G. A. Stella (su cui vedi i materiali on line: http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/rizzoli/stella/home.htm). Nei primi giorni del Novembre 2007, Veltroni ha dichiarato che la città di Roma è stata la capitale europea più sicura fino all’ingresso della Romania in Europa (l’implicatura è evidente); Berlusconi ha dichiarato che, se fosse stato al governo, avrebbe chiuso le frontiere ai lavoratori romeni; Fini ha caldeggiato espulsioni di massa; Calderoli ha proposto le ronde anti-rom; nel suo blog, Grillo se la prende con chi non ha fatto la moratoria come gli altri Paesi europei, accusando chi ha “tranquillizzato sul finto mito del terrore dell’invasione di lavoratori stranieri”… Ma in questo modo sembra che l’alternativa sia quella fra la “tranquillità” (colpevole) e il “terrore” di fronte all’“invasione”. Per quanto riguarda la retorica delle “invasioni”, gli esperti restano coloro che scrivono per la Padania, da cui apprendiamo (7 nov., Andrea Gibelli) che dagli Unni fino ai Rom, dalla Romania sarebbero arrivati solo saccheggi.
Le Monde (corrisp. da Roma, 5 nov.) evidenzia che Veltroni, “il nuovo uomo forte del centro-sinistra”, ha parlato di “pericolo rumeno” e prosegue mettendo in evidenza la “genericità” delle formule con cui è stato sollevato e affrontato il caso. Di una sorta d’isteria italiana hanno parlato i giornali americani. Nel New York Times (8 nov., Ian Fisher, Romanian Premier Tries to Calm Italy After a Killing) troviamo espresso un punto di vista di cui in Italia non si è discusso: il problema reale sarebbe che la politica italiana non si è ancora immaginata come affrontare i cambiamenti legati all’arrivo di così tanti migranti. Di retorica italiana anti-immigrazione si parla nel The Guardian (5 nov., John Hooper). I politici italiani, come risulta da questi quotidiani, fanno dichiarazioni sull’onda dei sondaggi, in base a strategie consigliate dal marketing del consenso, prestando il fianco alle derive xenofobe.
Deficit di discussione e decisione parlamentare, quindi. Dovuto forse alla disabitudine. Scarsa immaginazione politica, per superare il gradino delle buone dichiarazioni d’intenti. Il 7 novembre, Prodi e Tariceanu avrebbero raggiunto l’accordo, riconoscendo l’importanza delle politiche d’integrazione e promuovendo la conoscenza reciproca. Di fatto ha prevalso, sui media italiani e nelle dichiarazioni dei politici, il binomio repressione/espulsione. Inoltre, laddove si parla d’integrazione, si aprono molte strade: integrazione economica e assimilazione culturale sono le prime declinazioni su cui s’insiste. Il tema dell’inclusione nella cittadinanza è desueto, forse perché la nozione stessa di cittadinanza è entrata in crisi con quella che Carla Weber ha definito (in uno dei paper di Polemos) «la pensabilità della polis».
Frattanto, molti Romeni – che tengono a distinguersi e a non essere confusi coi Rom di cittadinanza romena – attribuiscono all’etnia Rom la colpa della cattiva fama e dello stigma che li coinvolge in quanto Romeni. Al punto che il Ministro degli Esteri romeno Cioroianu (4 nov.) si è chiesto pubblicamente se non si possa trovare un modo per acquistare un pezzo di terra in qualche deserto egiziano, per mandarci questa gente (i Rom) che compromettono l’immagine dei Romeni. Ha dovuto ritrattare e scusarsi.
Mihaela Iordache (sul sito www.osservatoriobalcani.org) è tra quelli che hanno evidenziato il rischio di “effetti a catena” nello stigma sui Rom. Non si è parlato, in questi giorni, di progetti come il “Decennio dell’inclusione dei Rom” (2005-2015), iniziativa che coinvolge l’Istituto per una società aperta del miliardiario di origini ebreo-ungheresi George Soros, la Banca Mondiale, la Commissione Europea, il Programma Onu per lo Sviluppo, e i governi di Romania, Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Macedonia, Serbia e Montenegro. La televisione pubblica preferisce dedicare molto più spazio all’eroismo dei naufraghi sull’isola dei famosi e ad altre amenità simili. Anche questa è una scelta politica, anzi propriamente anti-politica.
Il giorno 11 novembre (Andrea Bonanni, Repubblica), il presidente della Commissione europea Barroso, rispondendo alla lettera in cui Prodi e Tariceanu chiedevano alla Commissione di fare di più per l’integrazione della comunità Rom, ha fatto notare di rimando che il governo italiano (si noti: quello italiano) non ha mai chiesto di accedere ai finanziamenti e ai programmi già esistenti. E ha insistito su questo punto (riferendosi evidentemente alle dichiarazioni di alcuni politici italiani): «Se c’è un crimine, non è di un Paese, o di un popolo, o di una famiglia, ma di uno specifico individuo che lo compie». E ancora, ha evidenziato che l’ingresso dei nuovi Paesi nella Ue, facendone salire il livello economico, può contribuire a riassorbire l’emigrazione (in Romania, in effetti, i salari stanno salendo, e c’è attività per richiamare soprattutto i giovani lavoratori emigrati).
Lo stesso 11 novembre, in Italia, il gesto tragico di un agente di polizia e la scelta di non interrompere il campionato di calcio hanno scatenato feroci violenze e aggressioni rivolte contro altri agenti di polizia, contro mezzi, abitazioni private e beni pubblici, in diverse città italiane. Non è una novità. Non è passato un anno da quando è morto un agente in servizio a uno stadio. Non è il caso di precisare che in Romania non si ricordano episodi paragonabili a questi, legati a partite di calcio.

(Luca Mori)