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Negare il conflitto è come cadere senza pensare all'atterraggio.

di Antonio Castagna. / scritto il 06-12-2005

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Roberto Ciccarelli, su “Il Manifesto del 22 novembre, intervista il filosofo francese Etienne Balibar a proposito delle rivolte nelle periferie parigine che hanno occupato tanto spazio sui media nelle ultime settimane. Balibar si sofferma su un aspetto in particolare, il provvedimento preso dal Ministro dell’interno Nicolas Sarkozy e dal governo francese, di introdurre una doppia pena, per i cittadini e per gli stranieri, che hanno subito l’espulsione amministrativa. Questa stessa logica sta, secondo Balibar, alla base del tentativo di etnicizzare lo scontro, è il segno della moltiplicazione dei confini, tanto che Balibar parla di apartheid. Secondo Balibar, e non è il solo, le rivolte possono essere spiegate attraverso il disagio, la frustrazione, la violenza, fisica e simbolica, che subisce chi vive nelle periferie e che è evidente da parecchi anni, come testimonia anche il film di Mathieu Kassovitz, L’odio (1995).
Le rivolte inoltre hanno assunto un carattere autodistruttivo, infatti a essere messi a ferro e fuoco erano gli stessi quartieri dei rivoltosi. Un diciottenne, intervistato da “Le Monde”, riporta Annamaria Rivera su “Il Manifesto” del 02 dicembre 2005 dichiara: “non siamo feccia ma esseri umani. Esistiamo. La prova? Le auto incendiate.”
Sicuramente quello delle banlieus è un modo poco efficace di proporre un conflitto, suscita più paura che attenzione, si presta a strumentalizzazioni e a paternalismi. Ma la domanda qui è rivolta a chi ha la responsabilità di ascoltare anche le voci fastidiose, per via del suo compito istituzionale. Moltiplicare i confini, separare i cittadini dai non cittadini, utilizzando le carte di identità come strumento di controllo e negando ancora una volta la peculiarità delle questioni che le rivolte delle periferie propongono assomiglia ai gesti autodistruttivi dei rivoltosi.
Torna in mente l’inizio del film di Kassovitz, in cui si raccontava di un uomo che precipitando dall’ultimo piano di un grattacielo a ogni piano attraversato nella caduta ripeteva a se stesso a mo’ di rassicurazione: fin qui tutto bene, fin qui tutto bene... Ma non è la caduta che è importante – diceva una voce fuori campo – è l’atterraggio. La reiterata negazione della presenza e dei problemi di inclusione posti dalle periferie e il tentativo di affermare in maniera autodistruttiva la stessa, assomigliano qui al cadere senza pensare all’atterraggio.

(Antonio Castagna)

http://www.ilmanifesto.it