di Antonio Castagna / scritto il 10-07-2009
Scrivere per questa sezione di Polemos diventa sempre più difficile. In giro si vedono quasi solo conflitti che non diventano conflitti ma risse. È difficile che la presa di posizione di giornali ed editorialisti aiuti a ridefinire e focalizzare in modo nuovo un problema.
Un esempio, così, giusto per capirci: gli sbarchi dei clandestini senza arte né parte. Perché un Presidente del Consiglio utilizza questo tipo di espressioni? Cosa vuole dire? Immagino che accanto all'immagine dell'invasione voglia enfatizzare il fatto che è gente inutile che non avendo niente di meglio da fare viene da noi a prendersi i servizi sociali togliendoli agli italiani, violentare le donne, togliendole agli italiani (notare che servizi sociali e donne sarebbero servizi per gli italiani maschi). E poi dice pure che non si tratta di sbarchi casuali, ma che sono organizzati dalla criminalità organizzata. Lasciando intendere che i migranti senza arte né parte sono pure complici della criminalità organizzata e quindi socialmente pericolosi.
Tutti questi aspetti sono corollario dell'ipotesi di base e cioè che si tratti di un'invasione. Il problema dunque è l'ipotesi di base, condivisa in tutta Europa e da quasi tutti i giornali italiani. L'invasione va infatti contrastata e ogni argomento è buono per convincere la popolazione. È come quando si va in guerra, la disumanizzazione dell'avversario è la condizione perché le popolazioni si mobilitino riducendo lo spazio per il confronto e la discussione. La guerra si sa, ha bisogno di concentrare le energie, di focalizzare l'attenzione su un unico obiettivo e dunque l'opposizione a questa va ridicolizzata con domande del tipo: cosa faresti se un iraqueno con i baffi (all'epoca della prima guerra del golfo fu un'argomentazione molto gettonata) arrivasse a casa tua e violentasse le tue donne? (Ma cos'è quest'ossessione per le donne?). Torniamo all'immigrazione clandestina e all'ipotesi dell'invasione. Ogni volta che, solo per fare un esempio, “La Repubblica”, mette in prima pagina una foto di un barcone di disperati, come li chiamano loro, non fa che confermare l'idea che si tratti di un'invasione. Chiamarli disperati poi, sotto la patina buonista dell'aggettivo, nega la dimensione di speranza e di coraggio che anima queste persone e le porta a rischiare la vita per cercarne una migliore. È questo un elemento decisivo della costruzione della paura. La speranza infatti volge lo sguardo verso il futuro e le possibilità, la disperazione verso un passato dal quale distogliamo lo sguardo inorriditi.
Mi viene in mente quando facevo il servizio civile a Palermo, al quartiere Borgo Nuovo, un posto dove vivere è difficile e la delinquenza minorile piuttosto sviluppata. Il mio coordinatore Camillo Barbato diceva che fino a quando non ammetteremo che per compiere un furto in appartamento, scalando tre piani attaccati a tubature di scolo e balconi, ci vuole coraggio e abilità, non riusciremo a fare niente per contrastare la delinquenza e la delinquenza minorile in particolare. Ecco, fino a quando non ammetteremo che per arrivare dallo Sry Lanka, attraversando mezza Asia (come?) un pezzo di deserto africano e il Mediterraneo su un gommone ci vuole coraggio e speranza, non avremo capito niente di quello che succede.
Un'altra questione riguarda l'aggettivo clandestino, trasformato in sostantivo e dunque in una proprietà costitutiva del migrante. Ma una persona è clandestina solo perché qualcun altro ha stabilito regole impossibili per governare gli spostamenti. Siccome le persone si sono sempre mosse, dovremmo forse parlare di questa proprietà costitutiva dell'uomo, il fatto cioè che è nomade. Una persona clandestina è qualcuno che si è mosso, come è nella sua natura, e che le leggi degli Stati hanno trasformato in persona entrata clandestinamente.
Il giornale “La Repubblica”, che ho citato prima, da una parte conferma l'ipotesi di fondo e cioè che si tratti di invasione, e contemporaneamente si batte per dare maggiori diritti all'invasore, una posizione davvero difficile da sostenere.
Quella che andrebbe combattuta è innanzitutto l'ipotesi, divenuta ormai senso comune, che si tratti di un'invasione. Dopodiché bisognerebbe lavorare concretamente intorno ai problemi che comunque l'immigrazione massiccia degli ultimi anni sta generando. Per esempio una concorrenza maggiore in certi lavori e soprattutto sui servizi sociali, asili, scuole, abitazioni. Ma questo vuol dire che bisognerebbe ricominciare a occuparsi sul serio dei servizi sociali, non certo dell'immigrazione. L'immigrazione dell'ultimo decennio costituisce solo l'innesco per evidenziare una serie di debolezze di questo paese. Le evidenzia, le mette in luce, costituendo una occasione formidabile per occuparsene sul serio in modo nuovo. Non lo fece il primo governo Prodi, non il secondo e nemmeno ora l'opposizione mostra di avere qualche idea spendibile.
L'opposizione parlamentare italiana sembra fare esattamente il contrario. Per prima cosa conferma l'ipotesi di base e dunque il frame che vede l'immigrazione come invasione e dunque come problema in sé. Condisce il tutto con una certa attenzione ai diritti civili, al ruolo dell'Onu, ecc. Ma tutto questo senza mettere in discussione l'ipotesi di fondo. Questo non è un conflitto, è una dichiarazione di resa in cui si tenta di strappare al vincitore qualche concessione minore. Nello stesso tempo non si registra una adeguata attenzione al tema dei servizi sociali. Né si è registrata quando la stessa opposizione è stata al governo. Quel che è peggio è che tutto questo accomuna l'opposizione parlamentare e quella extraparlamentare. Qui occorrerebbe ad esempio una riflessione approfondita su cosa è diventato il welfare in questo paese. Provo a dirla brutalmente: è un sistema di erogazione basato sulla scarsità, l'accesso al welfare è dunque caratterizzato dalla lotta di tutti contro tutti. Gli aspetti problematici sono dunque due: 1) la scarsità delle risorse; 2) il fatto che assomigliando a un juke box, il cittadino non ha alcuna responsabilità. Può infilare la monetina e pretendere che suoni quello che vuole lui. La corresponsabilità del cittadino nella creazione del legame sociale e nella gestione dei servizi è completamente negata. Racconto una storia a mo' di esempio.
Accanto a dove abita la mia famiglia, in Sicilia, c'era un vasto spazio semiabbandonato. In un angolo di quel terreno i bambini e i ragazzi (fino ai 14-15 anni circa) avevano ricavato un campo di calcio. Ogni giorno disputavano tornei che andavano dalle due del pomeriggio all'imbrunire. In primavera dunque si giocava fino alle otto di sera. Sono sicuro che a scuola non andavano granché bene. Però si divertivano e li invidiavo. Nello stesso tempo, i campetti in terra battuta costruiti dal comune qua e là nel quartiere erano in stato di completo abbandono e non ci giocava nessuno.
Quel terreno però era destinato a costruire una scuola media che ha occupato anche lo spazio del campetto di calcio. Ora in giro per il quartiere non c'è più nessuno. Il quartiere si chiama Perriera e si trova a Sciacca (Ag), per chi volesse verificare. Certo la scuola media ci vuole, serve proprio a quei ragazzi. Possibile che non si potesse valorizzare il senso di responsabilità di quei ragazzi che costruendo il campetto di calcio avevano appreso a costruire uno spazio pubblico e definire delle regole per la gestione (i tornei permettevano a tutti di giocare almeno una partita nel corso del pomeriggio).
Poi va a finire che si va nelle scuole a parlare di responsabilità e a fare lezioni di educazione civica. Mentre gli esempi di responsabilità civica vengono spazzati via dalle ruspe. In quel caso il servizio sociale i ragazzini se l'erano costruiti da soli, non costava nulla allo Stato, era sicuramente ben gestito. Il messaggio che il Comune e lo Stato hanno dato è di completa estraneità al vissuto delle persone che frequentavano il campetto.
A me non sembra strano che poi i cittadini pensino al welfare come a un juke box.
Sono questioni enormi da affrontare. Ma se ricominciassimo da capo da ciò che c'è? Se ricominciassimo dalla costruzione del legame sociale? Se cominciassimo a immaginare le potenzialità che ci sono?
Antonio Castagna