di Carla Weber / scritto il 25-09-2009
“Io sono contento quando mi dicono che sono fragile, poiché ho scoperto nel lavoro fatto con me stesso che la fragilità è una forza, non la voglio perdere, non voglio smettere ma continuare tutta la vita a confrontarmi per aumentare la capacità di sentire e comprendere”, mi dice oggi Marco durante una seduta. Da quando si sta scoprendo “capace di sentire”, la relazione con la sua ragazza si sta facendo difficile. Lei gli chiede leggerezza e svago nel rapporto. Lo rimprovera di essere “pesante”. Lo preferiva quando la vessava con le sue paranoie, la tormentava e la faceva piangere preso dalle sue infondate “certezze” e agiva con superficialità senza provare alcuna emozione, alcun turbamento per le lacrime di lei.
Mi sembra che la questione del maschile e del femminile riguardi le reciproche attese, i desideri affidati, la possibilità di sentirsi esistenti e capaci di controllo della situazione. La regolazione dell’aggressività e il potere che si agisce nella relazione fa la differenza. Qui entra l’educazione, la cultura, la religione, la storia dei generi e delle rispettive attribuzioni di ruolo.
Abbiamo bisogno che si mescolino le carte per cambiare. E questo si può fare solo insieme donne e uomini, riconoscendo la forza e debolezza in entrambi i sessi, intendendo per “forza” il potere che ciascuno ha di emanciparsi e soggettivarsi, e per “debolezza” la vulnerabilità necessaria per la generatività, la creatività umana.
Marco testimonia l’inevitabile conflittualità di un’intesa dei corpi, degli affetti, del pensiero e della parola. Ci fa riflettere sulla complessa questione della sintonia dei tempi, della durata, dei diversi livelli possibili dell’intesa. L’ambiguità non è eliminabile dalla relazione uomo-donna, anzi è terreno di esplorazione del non ancora definito, del mistero di un legame, buono o cattivo che sia.
Le donne mal sopportano di essere identificate come sesso debole e sono pronte a portare testimonianze e dati a disconferma di tale attribuzione.
Dal mio lavoro di psicoterapeuta raccolgo una debolezza affettiva nelle donne che non hanno introiettato un codice paterno. Penso che come donne dovremmo conoscere meglio quella “domanda assoluta” di essere amate, che viene posta in situazioni non adeguate, e quella “potenza” che ci si dà nel sostenere compiti relazionali impossibili.
La donna non porta l’armatura, la sua generatività può esprimersi solo portando fuori di sé l’oggetto del suo amore. L’apertura all’altro le è costitutiva e non può arretrare neanche se viene offesa, violata, picchiata, mutilata e uccisa. Assistiamo a questo nella vita affettiva, lavorativa e nella vita pubblica. In questo tempo le donne del mondo, più di quelle europee, non mancano di attrarre l’attenzione pagando costi altissimi, anche della vita, per far discutere delle questioni riguardo alla dignità, alla giustizia e alla libertà femminile. Sono questioni che riguardano tutti. Questo ha voluto dirci Lubna Ahmed Hussein , rinunciando all’immunità di incaricato Onu e facendosi processare in Sudan per l’ accusa di indossare un capo “indecente” per una donna, i pantaloni.
Gli uomini non possono eludere che il loro destino è legato al destino delle donne. Il dominio, il disprezzo, l’abuso, lo scempio di un corpo femminile, non potranno cambiare il fatto che l’uomo stesso, il maschio, è generato dalla donna ed entrambi appartengono ad una storia drammatica comune. La fragilità dell’uomo è originaria, ferita narcisistica soggetta alla rimozione, se non elaborata nella relazione affettiva con il femminile, con la madre in primo luogo. L’educazione assume un ruolo decisivo in questo tempo. Le questioni planetarie più urgenti richiedono per essere affrontate una maggiore presenza di un codice materno.
(Carla Weber)