di Luca Mori / scritto il 26-01-2008
Di «zuffa tra preti» si legge sul Corriere della Sera, di «violenta baruffa» sul sito dell’Ansa, di «rissa» sul Messaggero. Dello “scontro” (come si legge in altri casi), sono stati protagonisti alcuni religiosi greco-ortodossi e armeni, impegnati nelle pulizie all’interno della Chiesa della natività a Betlemme, di cui sono custodi.
Da un punto di vista meramente descrittivo, limitandosi a risalire appena la catena delle cause palesi e del senso dell’accaduto, risulta che alcuni ortodossi hanno superato il confine della parte della basilica di loro competenza: ne sono seguiti, gli insulti, l’aggressione reciproca, le bastonate e le sprangate, interrotte con difficoltà in seguito all’arrivo della polizia.
Dal 2 aprile al 10 maggio 2002, nella stessa basilica si rifugiarono più di 200 palestinesi, tra cui alcuni guerriglieri, e di conseguenza l’edificio fu tenuto sotto assedio dalle truppe israeliane per 39 giorni. In seguito, ci fu chi ravvisò una correlazione simbolica fra quei 39 giorni di resistenza non violenta e i 40 giorni di Gesù nel deserto: considerata la sua natura ‘sacra’, il luogo si presta molto all’interpretazione simbolica di ciò che vi accade.
In quei giorni del 2002, tra l’altro, ci furono le preoccupazioni, espresse anche da esponenti cattolici, sulla possibilità che i musulmani richiedessero la sepoltura in loco di un loro compagno, ucciso durante l’assedio. Quando finalmente l’assedio terminò senza un assalto armato, qualcuno promosse comitati per il conferimento del Nobel per la pace ai francescani e alle suore del luogo.
Un luogo di pace e di pacificatori: i cattolici, con i greco-ortodossi e gli armeni, rimasero allora all’interno della basilica, che continuano ad amministrare insieme.
Quanto accaduto nel dicembre 2007, però, suggerisce che anche la ‘pace’ non violenta – quella che sembra poter accomunare tutti – ha bisogno di separatezza e di esclusione: che anch’essa può covare l’aggressione, e che ha bisogno di confini e di una certa distanza, per cautelarsi dall’ostilità che la attraversa.
Il simbolo che tutti condividono, lì, è Cristo, il credere nella criticità di Gesù, cioè nel fatto che l’uomo Gesù sia Dio, e il fatto che non solo sia morto, ma che sia morto per la salvezza degli uomini. Eppure, la condivisione di un simbolo tanto esigente di riconciliazione può veicolare motivi d’aggressione: è un capitolo emblematico per una fenomenologia del conflitto.
Capita che ci si divida nel nome del simbolo che si condivide. La condivisione di un simbolo religioso comporta il religare (‘raccogliere insieme’: etimologia di Lattanzio) e il relegere (raccolta scrupolosa di prescrizioni e atti rituali: etimologia di Cicerone). Le due dinamiche sono al tempo stesso inclusive, esclusive e selettive. A complicare le cose, nel ‘passare di mano in mano’ del simbolo (nella tradizione, traditio), si formano e si consolidano interpretazioni, rivendicazioni d’autorità e istituzioni. Il simbolo, che forse unisce in origine, è polemogeno, catalizza conflittualità. Ciò accade anche perché ogni simbolo è carico d’ambiguità, come lo è la relazione simbolica che s’instaura tra menti complesse.
Che la conflittualità degeneri in aggressione, può derivare da un’infinità di fattori: dai caratteri degli attori di volta in volta chiamati a confrontarsi con la dimensione conflittuale, da interessi a rigore estranei alla sfera religiosa, e così via. Ce ne sono alcuni, però, legati alle caratteristiche della condivisione simbolica.
Il simbolo delle tradizioni cristiane è uno, ma tutte le tradizioni – per legittimarsi nella loro identità – devono assumere che nelle altre tradizioni ci sia qualcosa di sbagliato, qualche pretesa di troppo o qualche errore d’interpretazione, anche se in buona fede. È come se ci fossero tanti ‘simboli’, e infatti ce ne sono, se ogni differente ‘Credo’ viene inteso come ‘simbolo della fede’. Insomma, il simbolo si spezza nei rivoli delle tradizioni, e ogni tradizione reinventa il simbolo. Lì, dove la fede dei cristiani colloca la nascita di Dio come infante di donna, i fratelli nella fede coabitano dentro un simbolo, diviso in zone di competenza: c’è dell’ostilità in quella pacifica coabitazione nel simbolo.
Dove il nemico poté essere trattato da ospite, l’ospite può essere trattato da nemico. Chi supera il confine può essere trattato come nemico prima che come ospite: in quel luogo così carico del simbolismo della riconciliazione (della nuova alleanza, del divino che va verso l’uomo per ricomporre un ordine infranto), accade che lo scontro (il versus) coabiti e prevalga sull’incontro (il contra). Le parti del simbolo, ormai diviso e spezzato, vengono mantenute rigorosamente separate, perché tutti hanno bisogno di garantirsi il pezzo di cui si sono appropriati. Divisi non da simboli diversi, ma dall’essersi appropriati di spezzoni dello stesso simbolo, gli uni possono vedere, negli altri che si avvicinano, prima i nemici (hostis) che gli ospiti (hospes). Del resto, tutto il cristianesimo è costruito sul tragico ribaltamento del chiasma hospes/hostis e di quello versus/contra tra Dio stesso e l’uomo. Tra i cristiani, che quel chiasma dovrebbero aver risolto riconoscendo il Dio ospite, quel chiasma evidentemente persiste.
(Luca Mori)