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Parlare senza parole.

di Sabrina Taddei. / scritto il 31-03-2006

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Concepito, realizzato e finito di montare in appena tre mesi, Ferro 3 – Case vuote di Kim Ki Duk, regista sudcoreano, è un film che pone l’accento sul desiderio di comunicare una scelta alla paralisi dei rapporti nella società contemporanea.
Tae-suk è un giovane che va in giro in moto, girando di quartiere in quartiere, per affiggere volantini sulle serrature delle porte delle case. A sera poi torna sul posto e verifica così quali di quelle case sono al momento vuote. Dopo aver scassinato la serratura, s’installa nell'abitazione, ma non come farebbe un ladro qualsiasi: non solo non ruba nulla, ma anzi lava i vestiti sporchi lasciati in giro, innaffia le piante, aggiusta stereo o orologi e si immortala con la sua macchina digitale davanti alle foto dei legittimi proprietari appese alle pareti. Un giorno Tae-suk entra in una casa che in realtà non è vuota: c'è una donna, in una stanza, di nome Sun-hwa, che lo osserva senza dirgli nulla, incuriosita dal suo comportamento. Quando il marito rientra in casa e trova la moglie in compagnia di un estraneo, va su tutte le furie, ma il ragazzo lo mette fuori combattimento lanciandogli addosso palline da golf colpite con una mazza (la numero 3, da cui il titolo). Senza dire nulla, Sun-hwa decide di andare via insieme all'estraneo, seguendolo nelle sue irruzioni in case vuote.
Kim Ki-duk ci narra non la realtà sociale ma quella interiore dei suoi personaggi, espressa da gesti spesso ripetitivi, ossessivi, come rituali (Tae-suk che lava gli abiti ai suoi ignari ospiti, o che lega una pallina da golf a un albero per esercitarsi al tiro), valorizzando la comunicazione non verbale come stile linguistico, rasentando il film muto tale è la concentrazione sulle immagini, sul gioco dei movimenti, sulla geografia dei corpi e dei volti. L'occhio dell'autore è puntato su questo personaggio etereo e surreale di Tae-suk. Uno spiantato, forse un pazzo, ma con una propria filosofia di vita, un proprio sistema di valori certamente non conformista ma che pare più efficace rispetto a quello dettato dal senso comune. Egli cerca, forse inconsciamente, un nuovo codice comunicativo per creare una socialità svincolata dal verbale, lasciando parlare l’originaria empatia prelinguistica di homo sapiens sapiens tentando di arginare la mancanza resa possibile dal linguaggio verbale: il reciproco non riconoscimento* senza per questo ridurre la conflittualità costitutiva di ogni forma di comunicazione, ma istituendo un nuovo frame.

(Sabrina Taddei)

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* Paolo Virno, Neuroni Mirror, negazione linguistica, reciproco riconoscimento. DeriveApprodi, Roma 2004.