di Mauro Cereghini. / scritto il 05-10-2006
Caschi blu italiani in Libano
“L’arcobaleno sfuma nel grigioverde”. E’ il bel titolo, provocatorio, che il sito web Unimondo dedica al dibattito tra i pacifisti italiani sulla missione Onu in Libano. “Non si fa la pace con le armi”, dice l’associazione cattolica Pax Christi. “Se è una missione di pace, i militari vadano disarmati”, rilancia Gino Strada. E perfino la Tavola della Pace ha avuto le sue critiche per la manifestazione di Assisi per alcuni troppo filo-militare. Tanto da registrare assenze significative, a cominciare da padre Zanotelli.
Dico subito la mia: mi pare di leggere in questa discussione un po’ troppi preconcetti. Come se non ci fossero stati gli anni ’90 con le atrocità in Rwanda, in ex-Jugoslavia, in Congo a farci vedere come un intervento anche militare in certe situazioni sia necessario. Lo dico da amante della pace; a me i Balcani questo hanno insegnato, che la sicurezza di una persona o di una comunità – davanti a chi usa la forza senza preoccuparsi delle sue conseguenze – in certi momenti ha bisogno di altrettanta forza per la sua protezione. Forza, si badi bene, che non sono i bombardamenti aerei criminali come su Baghdad, Kabul o Belgrado; piuttosto una presenza difensiva sul terreno che separi le parti.
E’ vero che nel mondo si sono sperimentate anche forme di interposizione nonviolenta: ad esempio in America Latina nella protezione di numerose personalità (tra cui la premio Nobel Rigoberta Menchù), attuata da accompagnatori internazionali disarmati che dissuadevano gli squadroni della morte con la loro sola presenza di testimoni. O che in Kossovo e Palestina ci sono interventi civili nonviolenti che attenuano il conflitto dentro piccole comunità di confine o pluri-nazionali. Ma se sono esperienze molto interessanti per chi studia e ricerca forme alternative di costruzione della pace, sono – purtroppo – ancora insufficienti per essere replicate su media o larga scala.
I militari, dunque. Non perché ami le armi, ma perché per il momento solo a loro può essere affidato lo specifico compito della sicurezza in un contesto internazionale. E’ dura ammetterlo per chi è stato obiettore di coscienza, ma non vedo alternative pronte. Però. Fermare la guerra non è costruire la pace. Quindi, se ai militari è giusto affidare la supervisione sul cessate il fuoco, non può essere delegato loro anche di trattare le condizioni della futura pace. La politica deve restare in mano alle diplomazie, e in primo luogo a quella multilaterale dell’Onu. Purché non sia una diplomazia fatta solo dai grandi vertici al Palazzo di vetro, ma dotata di una presenza civile sul terreno. Serve dunque una missione non militare altrettanto robusta (e finanziata!), con esperti nel monitoraggio dei diritti umani e nella costruzione della pace dal basso.
E ancora, però. Ci sono critiche sollevate dalle passate missioni di pace Onu che non possono affatto essere eluse. E non mi riferisco solo al dibattito sulla catena di comando o sulle regole d’ingaggio, questioni di importanza militare ma che non esauriscono gli elementi critici sui disastri passati… Penso all’impatto devastante che spesso le missioni internazionali hanno sulle comunità locali: con l’economia drogata dai prezzi di beni e servizi che decuplicano, i gruppi criminali locali che si spartiscono appalti e forniture, gli insegnanti di lingue straniere che abbandonano le scuole per fare i traduttori o gli autisti…
Penso a questioni di correttezza etica e penale che hanno investito i caschi blu, dalle accuse di corruzione (persino gli aiuti umanitari a Sarajevo venivano taglieggiati…) fino al fiorire della prostituzione che spesso tristemente affianca gli “uomini della pace”. Penso all’uso delle compagnie private di sicurezza al fianco deli eserciti ufficiali, col rischio di azioni meno regolate e controllabili. E penso alla maschilizzazione che un’eccessiva enfasi militare porta con sé, contribuendo a coprire le voci di pace di donne (e uomini) locali solo perché non sono i leader con cui in genere si rapportano le gerarchie delle missioni: tanto per dire, è difficile che un militare, per quanto dell’Onu, tratti con rispetto un disertore…
E un ultimo però. Che i militari si occupino di far tacere le armi. Ricostruire il Libano spetta ai libanesi con l’aiuto delle istituzioni internazionali e delle ong, che lo sanno fare, non a loro. E’ da fermare quindi il tentativo in atto ormai da tempo di riunire sotto un unico cappello sicurezza, aiuti umanitari e cooperazione, dando agli uomini con le stellette la supervisione di tutto. Accadde per il Kossovo, dove l’Operazione Arcobaleno creò una commistione urticante tra esercito, protezione civile e associazionismo italiani. Ed è proseguito in Afghanistan e Iraq, dove addirittura l’esercito Usa ha cercato di imporre le ong “embedded”. L’obiettivo della sicurezza e quello della ricostruzione fisica e sociale di un paese sono entrambi fondamentali, ma sono anche decisamente distinti. Piegarne uno per favorire l’altro – cosa che purtroppo avviene in molte missioni militari all’estero, anche solo in buona fede per “fraternizzare con la popolazione” – è una distorsione che va fermata. Come non sta ai cooperanti far brillare le mine, così chi ha in mano un fucile non dovrebbe occuparsi di portare giocattoli (spesso inutili), né di stabilire quali gruppi di società civile sostenere.
Ecco, dunque, alla fine ho espresso anch’io molti dubbi sulla missione Onu in Libano. Ma si tratta di dubbi che prendo dalle esperienze e dagli errori concreti del passato. Ho pochi dubbi invece che la missione in sé sia utile e importante non solo per il Medio Oriente, ma anche per la rinascita dell’Onu e la crescita dell’Unione Europea. Per la speranza cioè di un mondo futuro non più controllato da una sola potenza. Come dire, più che nel grigioverde per me l’arcobaleno sfuma nel verde. Verde speranza.
(Mauro Cereghini
(già direttore de l'Osservatorio sui Balcani)