di Ugo Morelli e Carla Weber / scritto il 27-12-2006
Gli ingombri si sa sono oppressivi. Come quando si mangia troppo o si ingerisce qualcosa di sbagliato. Si può cercare di digerire o di liberarsi, vomitando.
La ricerca della liberazione da un ingombro, da una situazione insostenibile, da qualcosa di insopportabile che ci riporta a parti di noi inaccettabili, può essere realizzata attraverso l’elaborazione e la riflessione o attraverso la regressione.
Un senso di infantilismo primitivo prende di fronte alla comminazione e alla prevista esecuzione della pena di morte per Saddam Hussein. Accanto all’evidente senso di inutilità della morte o alla pietas morale, che pure si fanno avanti, di non poco conto è la negazione del conflitto, in chiave estrema, che un’azione di questo tipo, tanto più di natura collettiva, contiene. La differenza tra la pena per Saddam Hussein e le altre esecuzioni capitali sta nel fatto che la rilevanza simbolica e l’impatto collettivo di questa esecuzione sono esponenzialmente diversi e capaci di spostare la sensibilità collettiva verso l’accettazione più ampia della pena di morte. La rimozione più forte sta nella personalizzazione del crimine, o meglio nell’uso politico e religioso della criminalità. Vi sono di certo risvolti soggettivi nella vicenda umana di Saddam Hussein, ma sono incomprensibili e probabilmente inesistenti senza il rinforzo politico, soprattutto internazionale. L’uso politico della criminalità raggiunge in tal modo il proprio vertice: una volta nella fase construens e una seconda volta nella fase destruens.
La concentrazione simbolica del male su un solo individuo non risulta né efficace, né forte sul piano di un principio di realtà e di giustizia. Un’umanità riflessiva e non reattiva potrebbe cercare la via per misurarsi con le mostruosità che essa stessa genera. Per farlo però dovrebbe contenere “la belva” che è in essa e non relegarla solo e totalmente in un suo membro. Una capacità depressiva di questa natura richiede di mettersi dentro e non fuori dai fenomeni che si presentano come inaccettabili o, come si dice, “disumani”. Ciò consentirebbe di riconoscere che gli ingombri sono parte integrante di noi e piuttosto che rimuoverli può essere opportuno cercare di farci i conti in modo non paranoico. La presenza viva di Saddam Hussein, fino alla sua morte naturale, sarebbe una memoria che probabilmente risulta inaccettabile, in quanto capace di presentificare gli aspetti di umanità ritenuti “inumani”, che egli rappresenta.
La pena di morte è una forma di elaborazione paranoide del male. L’elaborazione paranoide non è certo nuova. Anzi si può sostenere che l’esecuzione pubblica della pena ne sia sempre stata una dimostrazione evidente. Oggi dalla piazza dell’esecuzione si passa alla piazza virtuale della televisione e ciò amplifica la regressione collettiva verso forme paranoidi, rischiando di neutralizzare gli spazi di riflessione.
(Ugo Morelli e Carla Weber)