di Stefano Pollini / scritto il 31-03-2008
Sull’ultimo numero di Internazionale (21-28 marzo), è pubblicato un articolo di Yonatan Mendel, giornalista israeliano, che ci aiuta a fare luce sul potere delle parole nel definire e inquadrare i fatti. In particolare Mendel analizza il modo in cui la stampa israeliana parla del conflitto con i palestinesi, evidenziando i limiti e la parzialità di un punto di vista che pretende di essere oggettivo e libero da ogni condizionamento.
Il problema – scrive Mendel – non è che i giornalisti israeliani obbediscono a degli ordini o si attengono ad un codice scritto, ma di fatto quando parlano della guerra arabo-israeliana perdono ogni forma di obiettività e distanza contribuendo a incorniciare il problema nel medesimo “frame”: quello dei “noi-buoni” e “loro-cattivi”, un frame che esaspera il conflitto e non aiuta a comprende le ragioni dell’altro per far evolvere la situazione.
Quando descrivono uno scontro violento, per esempio, i giornali scrivono sempre che l’esercito israeliano ‘conferma’ o ‘dichiara’, mentre i palestinesi 'sostengono'. «I palestinesi ‘sostengono’ che negli scontri a fuoco con le forze israeliane è stato gravemente ferito un neonato. Sono invenzioni? I ‘palestinesi sostengono’ di essere minacciati dai coloni israeliani. Ma chi sono questi ‘palestinesi’? Perché un articolo parla di una tesi 'sostenuta dai palestinesi'? Perché non si cita quasi mai un nome, un ufficio, un’organizzazione, insomma una qualsiasi fonte a cui attribuire queste informazioni? Forse perché le farebbe apparire più credibile?»
Un altro esempio. Nel giugno del 2006 con una operazione accuratamente pianificata Israele ha catturato e imprigionato una sessantina di militanti di Hamas, di cui trenta erano parlamentari e otto ministri. La stampa israeliana ha scritto che Israele 'ha arrestato' una sessantina di militanti di Hamas.
«Il fatto che questi alti funzionari siano stati prelevati dai loro letti in piena notte e trasferiti in territorio israeliano non era un “rapimento”. Israele “non rapisce”, Israele “arresta”. L’esercito israeliano non uccide mai nessuno intenzionalmente, figurarsi se commette un “assassinio”. Anche quando vengono coinvolti civili e bambini innocenti non si tratta di un assassinio ma di un “omicidio mirato”. Un giornalista israeliano può dire che i militari hanno colpito dei palestinesi, o li hanno uccisi, o uccisi per errore, e che i palestinesi hanno trovato la morte (come se l’avessero cercata), ma non scriverà mai che sono stati assassinati. Inoltre per come le dipingono i mezzi d’informazione le Idf (le forze di difesa israeliane) hanno un’altra strana caratteristica: non sono mai loro che cominciano, decidono, o lanciano una operazione. Le Idf si limitano a reagire. Reagiscono ai lanci di razzi, reagiscono agli attentati, reagiscono alle violenze dei palestinesi. Dato che ai palestinesi non è dato reagire, i giornalisti usano un altro vocabolario: vendicare, provocare, aggredire…».
L’articolo è piuttosto lungo e prende in considerazione molti altri esempi tra cui il fatto che i giornali parlano di “territori amministrati” per descrivere ciò che la stampa internazionale chiama "i territori occupati", oppure il fatto che la parola “Palestina” non si usa quasi mai: esiste “un presidente palestinese”, ma non un “presidente della Paalestina”.
Ciò che colpisce è che i giornalisti israeliani pretendono di descrivere la realtà, non di nasconderla: «nessuno gli ha chiesto di convincere l’opinione pubblica che la politica militare di Israele sia buona – scrive Mendel. Le loro restrizioni linguistiche sono scelta volontaria quasi inconsapevole e per questo ancora più pericolosa».
Ciò che invece fa Mendel è un lavoro preziosissimo e raro, un lavoro fondamentale per far evolvere una situazione conflittuale: far riconoscere il punto di vista da cui guardiamo il mondo, mostrando come le parole e le metafore che usiamo ci vincolino a vedere solo una parte del mondo. Senza accorgercene diventiamo meno liberi, perché diamo per scontato il contesto che abbiamo creato; il mondo diventa più piccolo, più chiuso, le scelte limitate ad un “frame” che non riusciamo a cambiare semplicemente perché non lo riconosciamo dal momento che ci siamo completamente immersi.
(Stefano Pollini)