di Carla Weber. / scritto il 21-11-2005
Si può fare come se un fatto in cui siamo coinvolti non fosse avvenuto, è possibile allontanare lo sguardo, assolversi dalla colpa, ricostruire diversamente gli eventi, inventare altri epiloghi? Sì, certamente la storia documenta questa possibilità per gli umani anche quando i morti sono milioni e le grida delle vittime sono assordanti. Non dobbiamo stupirci che questa esperienza di negazione dell’evidenza di certe responsabilità, di rimozione delle azioni violente e della pratica dell’esclusione e dell’indifferenza attraversi le relazioni quotidiane. Spesso nemmeno ce ne accorgiamo se non ci costringiamo a fermarci ad uscire dal flusso anestetizzante dell’andare, del fare. Un evento critico o catastrofico ci trova impreparati, analfabeti direi, sul piano affettivo ed emotivo. Non è detto che ci riusciamo a fare i conti con il rimosso, con l’orrore di ciò che vorremmo porre fuori dall’umano, ma che è dell’umano anche se terribile e nauseante. Non ce la facciamo a riconoscerci, a tollerare la confusività di un sentire che mette in pericolo la costruzione della nostra identità e portiamo l’orrore fuori di noi, lo incorporiamo in altri nostri potenziali nemici, ci sentiamo vittime. Non è una riflessione pessimistica la mia, ma di un realismo che ci permette di rimboccarci le maniche. Con questo sentimento sono uscita dalla proiezione del film di Haneke, Niente da nascondere (Cachè), un’opera veramente efficace per rendere il blocco attuale di uno sviluppo che non può esserci se non mette in dialogo affetti e pensieri, uomini e donne, genitori e figli, privato e pubblico, privilegi ed esclusioni, informazione e conoscenza. La narrazione filmica mostra la complessità delle influenze prodotte nella vita privata delle persone di un atto pubblico di omicidio degli immigrati algerini, annegati nella Senna nel 1961, negato e rimosso sul piano delle implicazioni individali e pubbliche. La pratica dell’esclusione e dell’indifferenza sul piano sociale e pubblico alimenta lo sviluppo e la crescita di un bambino segnandone tutti i rapporti affettivi, da quelli con la propria madre a quelli con la moglie, il figlio, gli amici e le relazioni lavorative. Impossibile sarà per il protagonista ricollocare sé stesso nella propria vita nella relazione con un coetaneo algerino, nemmeno a fronte di una dimostrazione tragica. “Il conflitto ha bisogno di conoscere, ha bisogno di negare” scrive Wilfred Bion. Non è un’enigma, come sembra, nell’esperienza si presenta proprio così. Nella ricerca della verità di cui abbiamo bisogno, non potendo riconoscere la presenza di fatti innominabili non possiamo che mettere in relazione segni e fatti secondo trame che non ci disconfermano nemmeno davanti all’evidenza. Una cecità, una sordità che mettiamo in atto per preservare uno status quo che sembra intoccabile ma che piano piano si fa vuoto, costringendoci via via a misconoscere tutti i legami che possono divenire pericolosi di sovversione.
(Carla Weber)